Quel che sta succedendo in Catalogna mi ispira, come spesso succede, sentimenti e valutazioni contrastanti.
Da un lato la mia anima ribelle è tutta a favore degli indipendentisti, così, a prescindere. Mi piace la ribellione contro l’ordine costituito. Senza questo spirito di ribellione saremmo ancora nelle caverne, se non sugli alberi. Il potere per sua natura è conservatore, tutela se stesso, anche quando si ammanta di paramenti rivoluzionari. Nessun potere ha interesse al cambiamento. Al massimo, per tutelare se stesso, il potere finge di appoggiare o addirittura di ispirare qualche cambiamento. Meglio governare un cambiamento di cui si mantiene il controllo che doverlo subire.
Dall’altro lato mi rendo conto che la società, per sopravvivere, per essere società, ha bisogno di regole. Senza le regole esiste solo l’arbitrio. Quando non ci sono regole condivise emerge l’unica regola che funziona sempre e ovunque: la legge del più forte.
Nessuno di questi due pensieri può considerarsi definitivo. Stolto chi crede che la conservazione ad oltranza o il cambiamento continuo possano essere la soluzione per chi cerca un giusto governo delle cose e delle genti. Sarebbe bello, sarebbe facile, sarebbe consolatorio. Basterebbe essere sempre conservatori o sempre progressisti per andare verso il famoso “mondo migliore”, o quanto meno “il migliore dei mondi possibili”. Purtroppo non è così semplice, e bisogna accettare il fatto che occorre fare sempre fatica. Occorre sempre decidere, sapendo che l’errore è probabile, quando applicare una ricetta e quando applicare l’altra. Il che non solo ci destabilizza e ci costringe a vivere in un mondo senza confortanti riferimenti stabili, ma ci obbliga anche a dover ogni volta studiare, indagare, informarsi, capire.
Oggi in Catalogna sta maturando un processo che dura da centinaia di anni, per lo meno da quando nel 1714, nella guerra di successione Spagnola, la Catalogna e tutta la Corona d’Aragona perse una buona parte di potere a vantaggio di un accentramento verso la corona di Castiglia. Con alterne fortune la Catalogna cerca da sempre di conquistarsi una qualche forma di autonomia o addirittura di indipendenza, questione più o meno archiviata ai tempi del post-Franchismo, nel secolo scorso, e tornata d’attualità nei primi anni del 2000.
Il principio di autodeterminazione dei popoli è stato inserito nel 1945 nella Carta delle Nazioni Unite e individua come fine delle Nazioni Unite:
“Sviluppare tra le nazioni relazioni amichevoli fondate sul rispetto e sul principio dell’eguaglianza dei diritti e dell’auto-determinazione dei popoli…”
D’altra parte esiste anche il diritto/dovere degli stati di tutelare la propria integrità, e in questa direzione si è più volte espresso il governo centrale spagnolo, fino all’ultima determinazione della Corte Costituzionale il 25 marzo 2014 che ha dichiarato incostituzionale ogni referendum per l’indipendenza della Catalogna.
Si confrontano quindi due diverse esigenze. Da un lato il diritto all’indipendenza, dall’altro quello costituzionale a difendere l’integrità territoriale della Spagna.
Da un lato il cambiamento, dall’altro il rispetto della legalità costituzionale.
Non è compito mio dare ragione all’uno o all’altro, non sono uno di quelli che hanno in tasca le verità rivelate, spesso dettate più da un senso di appartenenza a questo o quello schieramento che da una reale conoscenza dei fatti.
Però mi viene spontaneo pensare ai fatti di casa nostra, dove si agitano sensibilità che alcuni reputano analoghe. La Lega, qualsiasi sia il nome che utilizzano adesso, ha spinto molto in passato sull’idea di una autodeterminazione del popolo padano. La differenza è del tutto evidente: non esiste una lunga tradizione di autonomismo lombardo o padano. Non esiste un reale movimento autonomista padano. Il massimo che hanno saputo esprimere gli indipendentisti padani è il Tanko dei Serenissimi Padani su cui è fin troppo facile esercitare la nostra ironia.
Se dovessi giudicare la questione Catalana con un occhio alle cose padane, mi verrebbe da liquidarla con uno stentoreo “ma lascia stare!”.
Lì però c’è gente che fa sul serio, tanta, e che dà voce ad una lotta indipendentista che dura da secoli, non una cosa folcloristica inventata in un bar da un tizio in canottiera. E comunque lì c’è la maggioranza dei catalani che chiede di potersi esprimere con un voto. E’ sensato impedire alla gente di esprimere la propria opinione? Certo, da li a decretare tout court l’indipendenza ce ne passa. Ma che democrazia è quella che impedisce alla gente di potersi contare? Di esprimere il proprio SI o NO rispetto ad una qualsiasi questione, soprattutto se questa questione nasce non strumentalmente ma sull’onda di un movimento pluricentenario?
A me pare che ai Catalani dovrebbe essere lasciata la libertà di votare. Cosa farne poi, di questo voto, è tutto da vedere. Nessuna costituzione prevede la gestione delle indipendenze, nessuna costituzione prevede la frantumazione dello stato centrale. Simili processi devono necessariamente passare in qualche modo sopra la costituzione, prevederne una modifica. Ma la modifica non può che passare attraverso il processo democratico del “contarsi”. E non è bello vedere la polizia dello stato centrale che spara pallottole di gomma contro chi vuole solamente esprimere democraticamente una propria idea di libertà attraverso lo strumento principale della democrazia: il voto.