Roma, 7 novembre 2019
Ho sempre avuto in sospetto gli atei dichiarati e compiaciuti, io ateo.Mi dan fastidio i tifosi; chi comprende la vastità del Tutto mai parteggia per qualcosa: comprende, invece.
O per meglio dire: ricomprende.
Fra i pochissimi autori che fan toccare vivamente tale sentimento vi sono Leon Bloy e Jorge Luis Borges. Il secondo sulle orme del primo.
Leon Bloy fu un reazionario, un cattolico, devoto alla Madonna de La Salette (La Salette-Fallavaux). Straniero in patria, straniero fra gli stessi cristiani.
La sua visione, apparentemente semplice, ha risvolti di terribile grandiosità. Anche qui, come per l’idealismo, valgono le famose parole: facile è afferrarne le premesse, vertiginoso e quasi impossibile calcolarne gli esiti e viverli, come fossero per noi operanti, ogni giorno.
In Bloy ho ritrovato il mistero della divinità, intatto.
La metafisica del Francese, come detto, è facile: qualsiasi atto o gesto o mozione dell’animo; gli animali, le pietre, le sfumature delle pietre (i milioni di sfumature di ogni singola pietra), le opere diuturne dell’uomo, le stelle, gli allineamenti d’esse; i sentimenti provati da ogni uomo vissuto sulla Terra, ogni minuzia, lo sventolare d’una tenda in Galilea duemila anni fa, l’oggetto della curiosità d’un corvo, su una quercia perduta nelle campagne umbre in un qualsiasi giorno del Medioevo italiano, soleggiato o plumbeo che fosse – tutto questo è inscritto, quale minuzia, nella Totalità.
Borges, allievo ideale di Bloy, cercò di ricreare letterariamente la Totalità nel raccontoL’Aleph. Cerchiamo di farci suggestionare – solo questo – dal suo passo:
“… vidi una piccola sfera cangiante, di quasi intollerabile fulgore. Dapprima credettiruotasse; poi compresi che quel movimento era un’illusione prodotta dai vertiginosi spettacoli che essa racchiudeva. Il diametro dell’Aleph sarà stato di due o tre centimetri, ma lo spazio cosmico vi era contenuto, senza che la vastità ne soffrisse. Ogni cosa (il cristallo dello specchio, ad esempio) era infinite cose, perché io la vedevo distintamente da tutti i punti dell’universo. Vidi il popoloso mare, vidi l’alba e la sera, vidi le moltitudini d’America, Vidi un’argentea ragnatela al centro d’una nera piramide, vidi un labirinto spezzato (era Londra), vidi infiniti occhi vicini che si fissavano in me del pianeta e nessuno mi riflette, vidi in un cortile interno di via Soler le stesse mattonelle che trent’anni prima avevo viste nell’andito di una casa di via Fray Bentos, vidi grappoli, neve, tabacco, vene di metallo, vapor d’acqua, vidi convessi deserti equatoriali e ciascuno dei loro granelli di sabbia, vidi ad Inverness una donna che non dimenticherò, vidi la violenta chioma, l’altero corpo, vidi un tumore nel petto, vidi un cerchio di terra secca in un sentiero, dove prima era un albero, vidi in una casa di Adrogué un esemplare della prima versione inglese di Plinio, quella di Philemon Holland, vidi contemporaneamente ogni lettera di ogni pagina (bambino, solevo meravigliarmi del fatto che le lettere di un volume chiuso non si mescolassero e perdessero durante la notte), vidi insieme il giorno e la notte di quel giorno, vidi un tramonto a Querétaro che sembrava riflettere il colore di una rosa nel Bengala, vidi la mia stanza da letto vuota, vidi in un gabinetto di Alkmaar un globo terracqueo posto tra due specchi che lo moltiplicano senza fine, vidi cavalli dalla criniera al vento, su una spiaggia del mar Caspio all’alba, vidi la delicata ossatura d’una mano, vidi i sopravvissuti a una battaglia in atto di mandare cartoline, vidi in una vetrina di Mirzapur un mazzo di carte spagnolo, vidi le ombre oblique di alcune felci sul pavimento di una serra, vidi tigri, stantuffi, bisonti, mareggiate ed eserciti, vidi tutte le formiche che esistono sulla terra, vidi un astrolabio persiano, vidi in un cassetto della scrivania (e la calligrafia mi fece tremare) lettere impudiche, incredibili, precise, che Beatriz aveva dirette a Carlos Argentino, vidi un’adorata tomba alla Chacarita, vidi il resto atroce di quanto deliziosamente era stata Beatriz Viterbo, vidi la circolazione del mio oscuro sangue, vidi il meccanismo dell’amore e la modificazione della morte, vidi l’Aleph, da tutti i punti, vidi nell’Aleph la terra e nella terra di nuovo l’Aleph e nell’Aleph la terra, vidi il mio volto e le mie viscere, vidi il tuo volto, e provai vertigine e piansi, perché i miei occhi avevano visto l’oggetto segreto e supposto, il cui nome usurpano gli uomini, ma che nessun uomo ha contemplato: l’inconcepibile universo”.
L’inconcepibile universo è al centro delle riflessioni di Bloy.
L’uomo non può che conoscere un’infinitesima parte di tale universitas; Dio no, Egli ha presente, con immediatezza, ogni atomo immerso nel tempo. Egli sa. Per tale motivo l’uomo che non s’affida a Dio sbaglia i propri giudizi. Egli non ricollega nemmeno lo ieri con l’oggi, eppure è talmente arrogante da giudicare. Solo chi sa può giudicare. Per questo non possiamo sostituirci a Dio: il giudizio retto, per l’uomo, nella sua immedicabile finitezza, è impossibile; perciò siamo costretti a rimettere lo spirito nella mani della divinità.
Un uomo, fallace per natura, vede un albero, una vena di materiale ferroso e alcuni artigiani al lavoro; per lui le tre cose sono distinte nel tempo, fenomeni passeggeri e causali. Dio vede il medesimo albero, quel ferro e quegli artigiani e, nell’immediata comprensione dell’altrimenti inconcepibile universo, Egli sa che tale minutaglia, comunissima e minuscola, inavvertita da tutti, prefigura e compie la Passione di Sé Stesso sulla Terra. Proprio quell’albero si trasformerà, infatti, a causa di insondabili vicende prosaiche (per noi insondabili), in assi; il ferro in chiodi; falegnami e fabbri, quegli artigiani, si adopereranno, invece, all’oscuro del proprio ruolo gigantesco, a sbozzare quegli assi e forgiare quei chiodi: a redimere l’umanità; un destino stringente recherà, poi, a Gerusalemme quei chiodi, quelle assi e inscenerà la Prima e Penultima Pantomima Universale: ecco che un Uomo è condannato secondo la legge romana; Egli si dichiara Cristo, il Salvatore; un prefetto di origine sannita, Pilato, osserva scettico questo Ebreo stracciato che ingombra la propria aula di potere; non comprende; la verità, cos’è la verità?; intuisce, forse, un gioco superiore? Costruito il patibolo, il re dei Giudei sale la Montagna del Teschio, muore su quel legno e su quel ferro dapprima sconosciuti, reietti, perduti nell’anonimo fluire del tempo, il sangue fluisce a terra, imbeve il terreno, filtra nei recessi del Golgota sino a lambire il Teschio: il Teschio di Adamo, Padre di ognuno di noi, lì sepolto, che viene così dilavato dal proprio peccato. Assieme a noi.
Bloy riflette: Dio conosceva il destino di quell’albero e di quel ferro, ma non è possibile che non solo quel legno e quel ferro particolari, ma proprio il legno e il ferro siano su questa Terra solo per consentire la Passione? Pilato, Caifa, Giuda, Pietro, i maiali indemoniati; la Giudea, Alessandria, Roma, la stesso mondo, e la storia del mondo, tutto quello che contiene la Storia, non è forse stato permesso solo per servire da fondale all’unico atto decisivo dell’inconcepibile universo? Alessandro Magno, Vergingetorige, massacri, empietà, distruzioni; gesti magnanimi, la stessa bellezza, il susseguirsi di albe e tramonti, la rotazione della Terra, i popoli delle stelle e di altri universi non sono che il pubblico inessenziale e l’attore innocente del solo atto che interessi, già conchiusosi e reso perfetto; una pietra miliare che rende ridicolo ogni progresso e avanzamento e a cui dobbiamo riandare eternamente: per eternamente vivere.
Tutto è compiuto, esala il Cristo sulla Croce; tutto quello che doveva essere fatto fu fatto; la Storia lì reclama un terminus ad quem concettuale.
Da tale punto di vista la nostra azione, qualunque moto del cuore, rimane nell’ombra. L’ombra e il mistero gravano sull’uomo come una notte inevitabile. Si crede di determinare un evento, ma, in realtà, chi ci ha messo in azione? E per quale fine? Quali sono le conseguenze vere di ciò che abbiamo scelto? Chi sono gli artefici della Storia? Non è possibile che un gesto operato da un essere insignificante possa decidere i destini dei milioni? Lo sguattero di Cesare fu più importante di Cesare? Solo Dio conosce la verità; l’uomo vaga nelle nebbie della limitatezza.
Questa visione grandiosa fa sì che i veri motori della Storia siano a noi sconosciuti. Miliardi di miliardi di atti si aggrovigliano nei millenni; cerchiamo di donargli un senso, ma, spesso, il senso è riposto in qualcosa d’Altro. Le nostre credenze sono una menzogna e la Verità, terribile, è avvolta nel mistero e nella consapevolezza di Dio.
Pensa a queste cose Jorge Bergoglio? Come ragiona questo grasso asino impagliato? Cosa hanno in mente davvero i rinnegati, coloro che, in nome di Dio e dell’estrema struttura in grado di arginare l’entropia, il Cristianesimo, lo rinnegano? Perché, a ben guardare, stiamo parlando proprio di questo. Leon Bloy: lo si può detestare o amare, accettare o confutare, e però, dobbiamo riconoscere alla sua visione, mirabile e d’accecante vastità, un senso; e soprattutto: un senso per cui valga la pena vivere, in accordo e devozione.
La prima bomba che cadde sull’Iraq, annunciata, in mondovisione, in una foia d’annientamento demoniaca, che, coerentemente, s’impregnava di ridicolo – annunciata da Emilio Fede – fu la prima tromba della catastrofe. A ruota, le Fallaci del mondo si unirono nel denigrare chi, per primo, non si doveva denigrare: l’Islam, un tentativo, anch’esso, di donare un senso al mondo, prima della liquidazione dei nostri tempi.
I cretini sono invincibili. Un cretino, dice Wilde, ti abbassa al suo livello e poi ti batte con l’esperienza. Un cretino arguirebbe, dalle righe di cui sopra, ch’io sia un islamista. Ma io difendo solo l’umanità, quella crosta di significato che galleggia pericolosamente sulle proprie origini protozoiche e lugno i bordi dell’Abisso. Occidente e Islam si sono combattuti per secoli; questi, sì, erano nemici; un Americano di Dallas è un nemico? Ve lo chiedo. La Lagarde è un nemico? Monti, Draghi, sono nemici? Sì e no. Sono dissolutori, e rigeneratori di un’umanità senza scampo. Il vero nemico condivide un codice, una legge interiore inderogabile; chi ha una propria etica, infatti, esclude, non può essere altrimenti. Se sono un individuo definito, con idee e attitudini secolari, escludo; chi è fuori di me è, necessariamente, un nemico; gli riconosco la gloria delle armi, dell’intelligenza, dell’onore. Un nemico lo si può addirittura venerare se sopravvive al mio assalto poiché ha dimostrato d’essere migliore. Ma qui non siamo in presenza di esseri umani, ma di negatori della definizione, dell’etica, dell’intelligenza, dell’onore. I Lagarde, i Rasmussen, gli Juncker sono individui essenzialmente psicopatici, vuoti, cave men, che alla loro nullificazione vogliono assoggettare il mondo. Essi gioiscono segretamente per l’umiliazione dei migliori, per l’atterramento di ciò che è eminente, per la ridicolizzazione della leggenda, del mito, di tutto ciò che dona profondità a fenomeni e popoli.
Il romanzo dello Huysmans alle soglie della conversione: Là-bas, L’Abisso. Anch’egli intuì l’impossibilità di vivere: alla vista dell’Abisso.
Gli psicopatici di nuovo conio non ridono, bensì deridono; non conoscono felicità poiché negano la disperazione; non amano poiché son privi di passione; gli va bene tutto purché sia poltiglia insignificante; reclamano la bontà solo per poter meglio combattere chi esclude, il fedele, ovvero il patriota, il difensore dei limiti, il sacerdote che custodisce, l’artista che crea.
Questi i negatori del senso, ecco chi bisogna temere. I dissolutori del passato. I liquidatori della razionalità. Gli araldi della dissoluzione. Quelli per cui ogni vacca è grigia e che invertono, continuamente, ragionevolezza e consuetudine, per addivenire alla melassa protozoica, mascherata da bontà, coloro che plaudono alla mancanza d’una direzione; distruttori di limiti, di bussole, di mappe; fanatici e stregoni dell’Indifferenza.
Tali nichilisti li si riconosce subito. Sono negatori di professione. Li si sente proprio gioire, intimamente, diabolicamente, quando possono distruggere un senso. Un senso qualsivoglia: la storia, una tradizione; oppure evemerizzare una leggenda: ridotta dalla sua peculiare, nobile, semplicità a un fatterello prosaico o scioccamente morboso. Per loro la grandezza è sempre costruita sulla merda. La storia è sterco e sangue, lo è sempre stata; per fortuna ci sono loro a mostrare la crudeltà del passato, ad additarne la barbarie, a smontarne le profonde connessioni maligne.
Non stiamo qui negando che la storia sia sanguinosa e lutulenta, un verminaio: la consideriamo, invece, nella sua rutilante bellezza, il senso per cui valga la pena vivere. Islam e Cristianesimo si combatterono per secoli, tra fango e sangue, e però Dante pone nel Limbo Avicenna e Averoìs “che ‘l gran comento feo”, ovvero glossò l’opera di Aristotele; ilNovellino ne riporta la magnanimità e la battuta salace come quando, in Sicilia a tavola con dei cavalieri, fu apostrofato crudamente: “Saladino, lavati la bocca, e non le mani”; e lui, pronto: “Signore, non parlai, oggi, di voi”; Giovanni Boccaccio ne ravviva il lustro nelDecameron (I, 3): in tale novelletta Ser Giovanni, prete Cristiano, pone un Musulmano a confronto con un usuraio Ebreo, Melchisedech: ne risulta la gloria dei tre monoteismi, simbolizzati dai tre anelli di cui ognuno può reclamare la santità e il primato. Questi sì, furono nemici: fra di loro è guerra, l’unica a consentire la vera pace.
Per i Romani, questo popolicchio calcolatore, esistevano due uomini e due date fondamentali. Enea, e il suo sbarco nel Lazio; Romolo, e la fondazione di Roma. Enea fugge da Troia in fiamme, arriva presso di noi, esule; presagito da indovini latini, egli irrompe nel nostro passato, si unisce a Lavinia, figlia unigenita del re dei Latini, sconfigge Turno, principe dei Rutuli; muore: il sepolcro, l’Heroon, lo si può ammirare ancor oggi, a Lavinio.
Romolo fonderà, cinque secoli più tardi, la Città: anche qui ritroviamo il limite, il pomerium sacro a delimitare, sul Palatino, il pristino insediamento, sacro anche per il primo imperatore, Ottaviano Augusto. Il Fico Ruminale sotto cui furono allattati Romolo e Remo. Il Lupercale, sepolto sotto quindici metri di roccia, la capanna romulea, le mura possono ammirarsi ancor oggi: se siete interessati a queste cose, se vi sentite ancora Italiani.
Ma cosa congiunse tali due eventi fondativi? La tradizione è implacabile: la teoria dei re di Alba Longa. Alba Longa, fondata dal figlio di Enea, Iulo.
Alba Longa, nei pressi dell’amena Albano, ai piedi del monte omonimo, meglio noto come Monte Cavo.
A salire sul Monte Cavo, per la Via Sacra, potrete godere della vista contemporanea dei due laghi, il lago Albano e il lago di Nemi; alla sommità, circa mille metri, una spianata, ove sorgeva il tempio di Giove Laziare. Quando sei lì, mi ha riferito un archeologo, puoi volgere gli occhi verso Roma: verso il Campidoglio, insomma, e il Palatino.
I generali vittoriosi di Roma, onusti di trofei e duci di carri debordanti per il bottino, sfilavano in trionfo a Roma; potevano, però, replicare il trionfo proprio ad Alba Longa, a sancire una continuità mitica e storica inscalfibile: tremila anni.
“Il Corriere della Sera” non poteva trattenere la gioia quando titolò: “Alba Longa, i 3000 anni di un mito. Mai esistita, inventata dai Romani”. La favoletta di qualche mestatore, insomma; il passato più grande si rivela, prima o poi, sempre una burla, ingigantita dai creduloni, uno sbuffo da gradassi; la gioia luciferina di quella negazione colava da ogni interstizio dell’articolo, corredato, come sempre, da precise indicazioni scientifiche.
I riduzionisti, con un’alzata di spalla illuminista, vigilano, quali scolte delle mediocrità. La grandezza, la magnanimità, la bellezza, quando si manifestano, debbono esser atterrate; sulle loro bocche alberga sempiterno lo sghignazzo, il dito statistico a roteare nell’aria, la sufficienza triviale che avvolge di prosaicità ogni moto. Orazio Coclite fu un imbecille, Lucrezia una puttana, i Romani dei contaballe, Traiano uno sterminatore, Tiberio un pervertito. Il loro trapestio da ratti ormai lo si riconosce persino nell’assordante circo del ventunesimo secolo; rodono, smerdano, si rivoltano con le loro pance flaccide, i musi baffuti ficcati dappertutto, nei pertugi dell’anima e della nobiltà a squittire la meschinità, l’ambita piccineria.
Non si sottovaluti la forza del fanatismo di tali figuri. Jorge Bergoglio, per cui il Cristo non fu che un Ebreo facinoroso passato lì per caso, è un fanatico. L’utopia, ovvero l’Utopia, l’unica rimastaci, abbisogna, infatti, per realizzarsi, di perfetti fanatici. La Monarchia Universale, Una; la Religione Universale, Una, quella del Grande Architetto; il Tempo Unico, Uno, quello Presente, a sancire una superiorità morale e intellettuale sulle brutture e gli orrori del Passato – un Passato da decostruire, deridere e schifare, in ogni scuola e Università, e obliare poi. Bergoglio questo vuole: dissolvere tremila anni nella poltiglia dell’Uno Luciferino, onnipresente, a negare moto e futuro, sentimenti e altezze e bassezze, a stazionare davanti a un orizzonte piatto e senza speranze. L’inversione è il metodo principe di tali settari: e lui, Bergoglio, per cui il fondatore del Cristianesimo, e i Primipali, Paolo e Pietro, non sono che molesti dossografi dell’Unica Religione Consentita, è lì a invertire, sminuire, diluire, ammiccare: alle Pachamama, alla Wicca, ai rabbini con le paillettes, agli atei devoti, ai musulmani da panino al prosciutto, agli ecopacifisti da multinazionale: a restringere l’uomo nella pozza protozoica, nel nome del bene, che Bene non è, e nemmeno Male, bensì Nulla.
Divenire, chiunque di noi, ateo o credente, un apostolo della sovversione dell’inversione: un Giusto, insomma; operare il proselitismo; uccidere con la parola; rigettare le minutaglie, questo ci resta. A meno di non consegnarci all’Avversario, l’Arcinemico, col nostro bagaglio inservibile di nostalgie. Cosa si vuol fare?
Snaturare, ingannare, estirpare: a questo serve il migrantismo, l’oltreumanesimo, l’oltrecristianesimo, l’oltrecapitalismo; l’oltre in ogni campo dello scibile, che, alla fine, è sempre post: postmoderno, postumano, postgenere. Una poveretta, mia conoscente, si congratula con i suoi tempi perché, finalmente, nota donne sole al cinema. Vedete, abbiamo vinto: una femmina, sola soletta, col suo posto numerato, prenotabile online, a guardare l’ultima sterpaglia di Almodovar: e non si sente a suo disagio! Ecco la conquista! Un’altra si batte per il femminismo nelle scuole, talaltra per la donna nella poesia, nello sport; una donna interraziale, aperta all’amore intergenenere; il trans, la trans.
Che la signora, nel fondo del cuore, sprofondata nella poltrona di un cinema da multinazionale, solitaria e connessa con l’universo mondo, tutto eguale, a gustare un film in contemporanea sugli schermi occidentali e orientali, sia assolutamente disperata, è una conclusione che mai balena nelle cucuzze di tali vertiginose cretine del progressismo: per cui il progresso, per esser tale, è sempre e solo negazione del passato. Educati, istupiditi, irretiti: al disprezzo del passato. Il passato non è maestro di vita né ricchezza inestimabile da valutare o arricchire o da cui partire per un volo d’Icaro da ribelle, ma un’imbelle congerie di sopraffazioni e servitù morale; così ragiona una detentrice di vulva, oramai libera, liberata, e pronta a lanciarsi a pelo di caprone verso l’orizzonte infinito, una pianura in cui non s’intravedono monti, anfratti o rifugi. Talmente libera, quella donna sola al cinema, e fiera d’esserlo, perché le hanno imposto, in quei frangenti, d’esser fiera di sé stessa, da sentirsi intimamente fuori posto, isterica, infelice o pazza; pazza, come diventeranno pazzi, prima o poi, che lo ammettano o meno, tutti i deracinés, gli sradicati del mondo. Questa è l’unica operazione del potere: sradicare, snaturare, volgere al contrario.
Tomi dottissimi e sottili sono stati estesi sulla degenerazione dei popoli indigeni a contatto con la civiltà occidentale. Pigmei, australiani, Aztechi, Incas, Navajos, dopo una patetica ribellione, buona per scrivere una manciata di film hollywoodiani a babbo morto o qualche nenia pietosa e nostalgica, li si ritrovava a fare gli sguatteri in qualche ristorantino, o ubriachi ai margini della strada, o delinquenti, o malati, di una malattia profonda che corrodeva l’inscindibile sinolo di anima e corpo. Nessuno, però, a quanto mi consta, a parte questo blog, spende una goccia di inchiostro digitale per descrivere i nuovi indigeni Italiani, sottratti da una infida genia di ingannatori alla propria natura; eccoli lì, dopo poco più di mezzo secolo di servaggio, gli Italiani, completamente nuovi; una umanità novella, seriale, rialzatasi dal lettino operatorio dopo gli espianti più abominevoli. Torpidi, ottusi, arroganti, sfaticati: puerili caricature di un popolo, ragazzini viziati e viziosi, incapaci d’originalità, di forza creativa, inevitabilmente sottomessi.
Da giovane mi divertivo a leggere esoterismo e metascienze. Le piramidi alluvionate, i figli delle stelle, il mistero di Sirio, l’Arca di Noé, l’Atlantide, Omero nel Baltico, Bestie uomini e dei. E la profezia di san Malachia. Malachia, l’irlandese Malachia O’Morgair, bravo a descrivere la teoria dei Pontefici dal 1143 al 2019, o su di lì. Giovanni Paolo II fu il terz’ultimo? Bergoglio l’ultimo? O, forse, basandoci sui ritratti della Basilica di San Paolo, egli non prelude che al Supremo Liquidatore della Cristianità, nemmeno un Papa; forse una Papessa o, perché no, un super liquidatore giuridico con la potestà di porre all’incanto chiese, cattedrali e beni: da donare, la scusa è sempre quella, ai nuovi poveri del mondo.
Ovviamente, non dovrei neppure scriverlo, anche Malachia non scrisse ciò che ha scritto. Le sue profezie, infatti, sono dei falsi, come ci avverte la consueta e solerte stampa riduzionista.
L’ebreo cattolico Quinzio la prese, invece, sul serio, la profezia, tanto da far suicidare, inMysterium iniquitatis, l’ultimo Papa, Pietro II, già nel nome una replica agghiacciata di Romolo Augustolo; Pietro II, che vedeva sfuggire il mistero del sacro a favore dell’ecumenismo-poltiglia, la grandiosità della resurrezione della carne per far posto a un’esistenza da cubicolo.
“Che l’uomo possa vivere facendo a meno di una certezza vissuta come assoluta – per quanto tragiche siano state o possano essere le conseguenze violente portate da queste certezze – è ancora da dimostrare; anzi, intorno a noi vediamo crescere la terribile anomia che tale nuova condizione suscita”.La guerra, conseguenza violenta della fede, la conseguente anomia. I più avvertiti girano in tondo, come carpe secolari, alla pietra del dilemma: sempre quello.
Mysterium iniquitatis venne pubblicato nel 1995; Quinzio morirà l’anno seguente.