Non si può che continuare a rimarcare quanto siano eccezionali i tempi che stiamo vivendo. Questi sono tempi tali che le decisioni che sono prese dai detentori del vero potere devono per forza di cose rivestire carattere di straordinarietà. In particolar modo, lo scontro oggi in atto tra USA e Cina deve essere combattuto con mezzi ed espedienti ugualmente straordinari. In questi momenti, occorre veramente ragionare ed agire al di fuori dagli schemi precostituiti, facendo cose che sembravano improbabili se non addirittura impossibili solo poco fa. Ed ecco perché si deve iniziare a pensare che gli Stati Uniti stessi possano avere l’interesse a scalfire alcuni pilastri del loro stesso potere imperiale: la NATO ed il petroldollaro, addirittura. Sembra un’autentica blasfemia di primo acchito. Perché mai gli USA di Trump dovrebbero pensare ad indebolire quelli che sono sempre stati i loro punti di forza? Passi ancora la NATO, che effettivamente costa troppo e dà al momento pochi vantaggi strategici, almeno fino a quando gli altri paesi membri non inizieranno ad aumentare le spese militari, come più volte sollecitato dall’amministrazione Trump.1 Ma il petroldollaro? Assurdo! Insensato! Folle! Non si era già spiegato quanto esso sia a dir poco fondamentale per l’egemonia americana? Quanto esso concorra a finanziare le stesse spese militari americane attraverso i continui acquisti di azioni e obbligazioni americane da parte delle monarchie del golfo? Di come cruenti e ingiusti conflitti siano stati combattuti per preservarne il predominio su scala mondiale? È vero, lo si è detto e ridetto a più riprese. Ma dobbiamo appunto ragionare fuori dagli schemi, dati i tempi che viviamo. E ragionando al di fuori degli schemi, potremmo arrivare a comprendere come gli stessi USA potrebbero avere convenienza a rinunciare alla predominanza del petroldollaro a seguito di un paradosso.
È il paradosso, o dilemma, di Triffin, di cui si è già parlato. Come si ci ricorderà, questo paradosso afferma che il paese che emette la valuta di riserva mondiale potrebbe arrivare al punto di sacrificare i propri obiettivi di crescita economica interna, pur di preservare il ruolo della propria moneta come riserva sui mercati internazionali. Questo succede semplicemente perché qualsiasi altro paese, desideroso di procurarsi la moneta riserva mondiale per i propri commerci, farà di tutto per avere una bilancia commerciale fortemente in attivo verso il paese emettitore della moneta riserva. Accettando di utilizzare la propria moneta come valuta di riserva, il paese in questione potrebbe essere obbligato ad iniettare grandi quantità di valuta sui mercati internazionali, aumentando l’inflazione in patria. Più popolare è la valuta di riserva rispetto ad altre valute, maggiore è il suo tasso di cambio e meno competitive diventano le industrie esportatrici nazionali. Ciò provoca un deficit commerciale per il paese che emette valuta, un deficit a cui non potrà opporsi, pena il decadimento della sua valuta come riserva internazionale. Se da un lato questa situazione favorirà almeno inizialmente i consumi ed il tenore di vita della sua popolazione, dall’altro non potrà che portare ad un processo di radicale deindustrializzazione che nel lungo periodo si ritorcerà contro lo stesso livello dei consumi perché nel frattempo la disoccupazione sarà aumentata. In definitiva, il dilemma di Triffin ci dice che l’emissione di una valuta di riserva significa che la politica monetaria non è più un’emissione nazionale, ma internazionale. I governi devono bilanciare il desiderio di mantenere bassa la disoccupazione e la crescita economica costante con la responsabilità di prendere decisioni monetarie a beneficio di altri paesi. Lo status di valuta di riserva costituisce quindi una minaccia per la sovranità nazionale.
Cosa accadrebbe se un’altra valuta, come lo yuan cinese, diventasse la valuta di riserva preferita dal mondo affiancandosi o sostituendosi del tutto al petroldollaro? Come abbiamo già visto, il dollaro probabilmente si deprezzerebbe e ci sarebbe un aumento dei costi sostenuti dagli USA per gli interessi da pagare sui propri bonds, poiché la domanda per un flusso costante di dollari si ridurrebbe; il che potrebbe avere un grave impatto sulla capacità degli Stati Uniti di rimborsare il proprio debito o finanziare programmi nazionali. Ma dall’altra parte, tutto ciò potrebbe favorire le esportazioni e ridurre il deficit commerciale che negli Stati Uniti in pochi decenni è letteralmente andato fuori controllo:

Che fare? Quello a cui si trova di fronte oggi l’amministrazione Trump è un vero e proprio dilemma: rinunciare al ruolo del dollaro come moneta di riserva mondiale, col rischio di far schizzare alle stelle i tassi di interesse sul debito pubblico americano, oppure seguitare nelle politiche di rafforzamento del dollaro costi quel che costi? Ed è proprio questo il nocciolo della questione. Oggi forse siamo arrivati al punto in cui gli USA potrebbero considerare le conseguenze che devono affrontare per mantenere la leadership del dollaro come moneta di riserva non più giustificabili. Si ponga attenzione a cosa concretamente consistono queste conseguenze: gli Stati Uniti hanno da quasi cinquanta anni una bilancia commerciale spaventosamente in passivo; le loro industrie hanno perso competitività e hanno chiuso in massa i battenti; milioni di cittadini hanno perso il proprio lavoro; la disoccupazione di massa ha contribuito a diffondere disperazione e tensioni sociali in aree un tempo floride (si pensi allo stato del Michigan, cuore dell’industria automobilistica a stelle strisce); persino le più strategiche industrie del comparto militare americano sono oggi diventate così fortemente dipendenti dalle importazioni dalla Cina da non essere più in grado di fare da sé. E si pensi anche ai trilioni di dollari che sono stati spesi nelle campagne militari che hanno avuto il via dopo l’11 settembre: guerre queste che non hanno portato ad alcun vero beneficio agli USA ed alla sua popolazione (ma ad Israele sì, eccome), ma che in compenso hanno depauperato la società americana, portando a quella degradazione delle infrastrutture, delle capacità produttive e della coesione sociale di cui già in precedenza abbiamo fornito un freddo resoconto. E poi ci sono ancora le centinaia di migliaia di vittime ed i lutti e le devastazioni che hanno flagellato tutti i paesi invasi dall’esercito americano o comunque colpiti dalle loro sanzioni economiche: Iraq, Siria, Libia, Afghanistan…
Bisogna veramente chiedersi se ne è valsa la pena. Valeva la candela ritrovarsi con una società fortemente impoverita e dilaniata al proprio interno e completamente invisi all’opinione pubblica internazionale solo per difendere la propria posizione di debitore di ultima istanza? Perché è questo che sono diventati gli USA difendendo il dollaro ad oltranza: debitori di ultima istanza. Come ci dice il dilemma di Triffin, il sistema petroldollaro sta in piedi finché gli USA si indebitano costantemente. Ed in questo processo c’è un paese che ha tratto vantaggi incommensurabili come nessun altro da questo folle indebitamento senza fine: la Cina (su scala minore, cioè in Europa anche la Germania). Forse è proprio giunto il momento in cui gli Stati Uniti si debbano mettere in discussione, non fosse altro perché si stanno scavando la fossa con le proprie mani. Più si indebitano, più fanno il gioco dei loro nemici. Di questo passo, non è affatto un’esagerazione asserire che gli Stati Uniti potrebbero presto vedersi costretti ad issare bandiera bianca verso il dragone asiatico senza aver avuto nemmeno la possibilità di incominciare a combattere. Combattere, sì, ma con che cosa se tra non molto ci si ritroverà costretti ad importare dalla Cina persino i missili e le armi con cui in teoria le si dovrebbe dichiarare guerra? Per quanto paradossale, questa non è una battuta ma è la constatazione del fatto che il processo di deindustrializzazione dell’America, ed in genere dell’intero occidente, è arrivato realmente al punto di non ritorno. Se la prospettiva è quella di perdere la guerra contro la Cina senza neanche aver iniziato a combatterla seriamente, allora sì che avrebbe senso rinunciare al dollaro come valuta di riserva mondiale. O quanto meno, si avrebbe convenienza che non sia più l’unica valuta di riserva. Lo stesso yuan potrebbe affiancarsi al dollaro come valuta di riserva, cosa che comunque porterebbe sicuramente ad una forte rivalutazione della moneta cinese con conseguente calo delle importazioni dall’estremo oriente. Ma i cinesi hanno sempre giocato sporco e sanno che a loro fondamentalmente non conviene uno yuan così forte. Checché ne dicano, l’attuale sistema monetario internazionale per loro è una manna e continueranno a fare orecchie da mercanti almeno finché non avranno conseguito una piena supremazia anche a livello politico-militare.
Si è ben consapevoli che una siffatta affermazione possa apparire realmente come stupefacente. Gli USA che abbandonano il petroldollaro!? Inaudito: sembra fantascienza. Abbiamo sempre saputo che questo è il fulcro del potere americano e della sua talassocrazia. Eppure, nell’imminenza di una redde rationem tra Cina e USA, potrebbe non esserci alternativa, se non un conflitto diretto che giocoforza non potrà che essere combattuto se non con armi nucleari. Comunque, che il governo americano stia considerando un certo cambio di prospettiva nei confronti del dollaro non deve apparire un’ipotesi così peregrina. Iniziano ad esserci vari indizi, che se non altro sono indicativi di un cambio di prospettiva. Ma soprattutto si tenga presente che l’attuale epidemia di COVID-19, quale che sia l’origine reale del virus, potrebbe realmente accelerare l’implementazione di tutta una serie di processi a cui probabilmente si pensava già da tempo nelle segrete stanze del potere. Anzi, c’è chi già chi arriva ad accusare Trump di “cospirare” per distruggere il dollaro2. Affermazioni, queste, che sarebbe stato impensabile leggere fino a poco tempo fa sui media. Eppure sono voci che si moltiplicano3. Per di più, lo stesso Trump, pur non avendone mai parlato apertamente in pubblico, non ha mai fatto mistero di considerare la possibilità di un ritorno al gold standard4. Questo apparentemente folle desiderio potrebbe essere invece la soluzione più efficace per risolvere il dilemma di Triffin e conseguentemente la posizione degli USA come debitore di ultima istanza su scala globale5. Sta di fatto che mentre si assiste in tutto il mondo ad un processo di de-dollarizzazione con la dismissione di titoli di stato americani6, Cina e Russia stanno facendo incetta di oro come se non vi fosse un domani7.
Tuttavia, tutto ciò non basta. Ammesso e non concesso che vi sia una reale intenzione di procedere ad un ridimensionamento del petroldollaro, affinché questo ipotetico progetto vada in porto occorre che si verifichino altre condizioni. La prima di queste consiste nel fatto che il governo centrale americano dovrebbe riuscire ad esercitare quanto meno una certa forma di controllo più stingente sulla FED. Ci si ricordi che la FED non è affatto una banca pubblica che risponde al Congresso americano e che le banconote da essa emesse non sono propriamente banconote “americane”, ma appunto Federal Reserve Notes. Non a caso, Trump ha spesso rivolto i propri strali contro la FED, reputandola per certi versi la sua minaccia più grave.8 Eppure l’emergenza coronavirus, come già specificato qualche riga più sopra, sta portando Tesoro e Federal Reserve ad operare all’unisono in una misura tale da far credere agli analisti di Bloomberg che si stiano ponendo le basi per una sorta di nazionalizzazione della FED, magari non a breve ma sicuramente in un prossimo futuro: “in altre parole, il governo federale sta nazionalizzando vaste aree dei mercati finanziari. La Fed sta fornendo i soldi per farlo. BlackRock farà il lavoro. Questo schema fonde essenzialmente la FED e il Tesoro in un’unica organizzazione. Quindi, potete chiamare il vostro nuovo presidente della Fed Donald J. Trump”.9
Un altro settore su cui l’amministrazione Trump deve lavorare è lo SWIFT. cioè Society for Worldwide Interbank Financial Telecommunication10, una società di diritto belga con sede a Bruxelles che si configura come una rete creata e gestita da banche per facilitare lo scambio di pagamenti e messaggi tra le diverse istituzioni finanziarie di tutto il mondo; vi aderiscono oltre 10.000 istituti finanziari in oltre 200 paesi. Il circuito SWIFT, soprattutto a partire dagli attentati dell’11/9, si è trovato ad essere egemonizzato dagli Stati Uniti e dal Federal Reseve System, visto che la maggior parte delle transazioni internazionali avvengono ancora in dollari. Infatti, in nome della lotta al terrorismo, la CIA ha incominciato a ispezionare buona parte delle transazioni finanziarie che giravano sul server della società presente sul territorio americano: milioni di persone hanno quindi subito una gravissima violazione della propria privacy11. Cosa ancora più grave, attraverso una forza coercitiva sulla società belga, gli Stati Uniti sono in grado di esercitare un embargo finanziario verso i propri avversari12: è in questa maniera, ad esempio, che si è voluto colpire l’Iran il quale – è bene ricordarlo- rimane un alleato di ferro della Cina, di cui costituisce uno dei principali fornitori di energia. In ogni caso, la Federazione Russa da tempo sta lavorando insieme alla Cina alla sua alternativa allo SWIFT13. In un prossimo futuro, il sistema russo potrebbe diventare antitetico a quello belga.
Ma la partita più importante si gioca altrove. Ed ovviamente questa partita non può che concernere il petrolio. Altrimenti, che petroldollaro sarebbe? Si è visto che petroldollaro significa che gli USA si sono accordati con le monarchie del golfo in modo tale che queste ultime, in cambio della protezione militare statunitense, si sono impegnate a vendere il proprio petrolio solo in dollari americani, così da tenere artificiosamente alta la loro richiesta e preservarne pertanto il ruolo di valuta di riserva mondiale. Questo accordo ha trasformato i reciproci rapporti tra USA e monarchie arabe in qualcosa di simile ad un rapporto simbiotico: i primi non possono fare a meno delle altre perché il petrolio venga venduto e comprato esclusivamente in dollari, ma queste ultime, senza la protezione americana, sarebbero esposte a rivolte e lotte fratricide ed i loro leader non potrebbero più vivere nel lusso più sfrenato . Sicché, per la prosperità di entrambi, occorre che, al netto di qualche lieve ed occasionale divergenza, essi procedano d’amore e d’accordo. Almeno, questo è ciò che sarebbe lecito aspettarsi. E finora è stato effettivamente così.
Eppure negli ultimi tempi stanno avvenendo fatti assai interessanti, sui quali occorre soffermarsi con particolare attenzione. Da anni, i rapporti tra USA e Arabia Saudita non sono più così idilliaci. Un primo pomo della discordia è stato il progresso dell’industria estrattiva americana reso possibile dall’altro prezzo del greggio che si è avuto fino al 2014, prezzo questo che ha portato ad un considerevole sviluppo dello shale gas americano, che ha trasformato gli USA da principale driver della domanda petrolifera a esportatore netto. Questa trasformazione non è stata ben vista dai Sauditi, visto che senza la concorrenza americana il prezzo del petrolio viaggiava ben sopra ai 100 dollari al barile. Le politiche oppressive della famiglia reale saudita, lo sfarzo abbacinante in cui essa suole vivere, la necessità di mantenere la pace sociale e contenere il dissenso popolare tramite generose elargizioni a fondo perduto distribuite ai sudditi, le manie guerrafondaie del principe MBS, e non ultimo i finanziamenti alle varie organizzazioni terroristiche, orbene, tutto ciò ha un costo, che si traduce in un prezzo del petrolio che per l’Arabia Saudita deve essere di poco superiore agli 80 dollari al barile per raggiungere il livello necessario per sanare il bilancio del regno. In realtà, in Arabia estrarre petrolio è un procedimento relativamente poco costoso: il mero costo di estrazione del petrolio ammonta a circa 10 dollari al barile; solo in Kuwait si estrae a costi inferiori. Ma l’economia del regno è incentrata esclusivamente sulla vendita di petrolio ed è per questo che il FMI internazionale stima che, date le spese complessive del regno, il prezzo debba aggirarsi attorno agli 80 dollari al barile perché il bilancio dello stato sia in pareggio14.
Pertanto, negli anni successivi, i Saud hanno rotto gli indugi e deciso di aumentare considerevolmente l’offerta di greggio, così da abbassarne il prezzo al di sotto di un livello tale da rendere lo shale americano economicamente insostenibile15. Questo scontro si è decisamente acuito negli ultimi tempi, proprio a seguito dell’epidemia di coronavirus. Causa rallentamento dell’economia globale, in particolare di quella cinese, si è assistito ad un calo addirittura spettacolare del prezzo del petrolio. Attualmente, il petrolio viene venduto a meno di 30 dollari al barile, ma solo poche settimane fa era venuto a costarne appena 20; e si tenga presente che all’inizio dell’anno lo si vendeva a 70 o poco meno16. Tra i principali produttori di petrolio si è innescata una vera guerra senza esclusione di colpi bassi. Di fronte a questo enorme decremento nel prezzo dell’oro nero, l’OPEC + ha chiesto agli inizi di marzo alla Russia di ridurre la propria produzione in modo da permettere un rincaro dei prezzi. La risposta dei russi è stata sorprendente: hanno semplicemente risposto nisba, gettando nello sconforto i produttori arabi, i cui break even points sono mediamente superiori a quello russo17. Questa mossa da parte della Russia ha evidenti finalità politiche: mettere il bastone tra le ruote all’industria americana dello scisto ma ancor di più all’industria petrolifera saudita18. I sauditi, indispettiti, hanno reagito in maniera scomposta, aumentando a loro volta la produzione di oltre un milione di barili al giorno. Cosa che ha ovviamente causato un affossamento del prezzo del petrolio (quello a 20 dollari al barile di cui si parlava poc’anzi).
L’intento è chiaro: rubare quote di mercato ai concorrenti e far saltare per aria l’industria dello shale oil americano, che non è in grado di sostenersi economicamente a lungo fintantoché il prezzo del greggio rimarrà ampiamente al di sotto dei 40 dollari al barile19. La guerra del petrolio che si è dunque venuta a generare negli ultimi mesi tra Russia e Arabia Saudita e che rischia di fare dell’industria estrattiva americana la prima vittima ha costretto il presidente Trump a correre ai ripari per salvaguardare quest’ultima, almeno fino a quando i prezzi non ritorneranno a salire. In primo luogo, il Dipartimento dell’Energia degli Stati Uniti ha annunciato l’intenzione di acquistare 77 milioni di barili di petrolio sul mercato interno per rafforzare le riserve strategiche del paese20; successivamente si è cercato di favorire un accordo all’interno dell’OPEC + per un taglio della produzione e quindi per evitare ulteriori tracolli nel prezzo del petrolio21.
Difficile dire come questa guerra del petrolio potrà evolversi, visto che sembra appena gli inizi. Ma il punto è che ormai Arabia Saudita e USA, in qualche modo istigate dalla Russia, hanno iniziato a darsi battaglia tra di loro in maniera sempre più evidente. Eppure, a rigore di logica, i due paesi dovrebbero convergere sulle medesime politiche energetiche ed economiche, essendosi detto quanto il petroldollaro abbia reso simbiotico il rapporto tra i due. Invece non è così: dopo anni di ostilità latente, Arabia e America sono di fatto entrate in una guerra economica l’una contro l’altra. Pare proprio che il coronavirus sia da considerarsi quel fantomatico cigno nero capace di sconvolgere l’intera economia mondiale. Proprio nel caos dovuto alla pandemia, molti nodi stanno venendo al pettine. In questo momento, negli USA si parla della possibilità di istituire dei dazi sulle importazioni di petrolio dall’Arabia allo scopo di difendere l’industria estrattiva locale22. Addirittura, il senatore repubblicano dell’Alaska Dan Sullivan è arrivato al punto di descrivere l’atteggiamento dei sauditi nei confronti degli Stati Uniti come palesemente ostile: “I sauditi hanno causato uno shock di approvvigionamenti esattamente nel momento sbagliato. Questo tipo di crisi chiarisce davvero chi sono i tuoi amici e chi non sono i tuoi amici”23. Nelle ultime settimane, l’Arabia Saudita ha cercato di inondare i mercati occidentali del proprio petrolio, arrivando addirittura a proporre degli sconti. Dal canto loro, gli Stati Uniti e i loro alleati, con la scusa del crollo della domanda di energia in occidente, si sono rifiutati di stoccare e raffinare questo petrolio di provenienza saudita24.
A questo punto, essendoci ormai guerra aperta tra USA e Arabia, viene da chiedersi fino a quando quest’ultima avrà ancora interesse a spalleggiare il sistema del petroldollaro25. Queste continue scaramucce, che portano a innalzare la produzione di greggio proprio in un momento in cui al contrario la si dovrebbe tagliare per via dell’immane calo della domanda di idrocarburi a livello mondiale, fanno sembrare la situazione vigente una sorta di stallo alla messicana: da una parte gli USA, dall’altra l’Arabia Saudita e dall’altra ancora la Russia. Tutti e tre i paesi rischiano grosso in questa guerra dei prezzi del petrolio. Gli USA, come abbiamo detto, potrebbero non essere in grado di reggere a lungo con prezzi del petrolio così bassi. Vi è il rischio concreto che il loro comparto shale oil nel lungo periodo possa andare a gambe all’aria. Questo avrebbe pesantissime ripercussioni al loro interno sotto multi punti di vista: sarebbe la fine dell’autosufficienza energetica statunitense con ricadute anche sulla politica estera americana, si perderebbro centinaia di migliaia di posti di lavoro e pure Trump si vedrebbe costretto a affrontare molti più grattacapi in vista delle elezioni di novembre. Da parte sua la Russia, che comunque pare il paese più attrezzato per sostenere una crisi grazie al suo sostanzioso fondo sovrano26, potrebbe presto rivedere al ribasso le stime di crescita del PIL: si parla già di una recessione se gli effetti della crisi economica dovuta al coronavirus dovessero peggiorare. E questo non è certo un bene per il sostegno popolare, ad oggi ampissimo, di cui gode in patria e all’estero Vladimir Putin.
Ma paradossalmente il paese che rischia maggiormente di uscire da questa guerra dei prezzi con le ossa rotte è proprio l’Arabia Saudita. Si è detto che il regime wahhabbita necessita di un prezzo del petrolio pari ad almeno 80 dollari al barile per fare quadrare i conti dello stato. Il fatto è che le spese del regno saudita sembrano infinite, senza fondo. Le varie ed insulse campagne militari di cui il principe MBS si è fatto fautore hanno portato alle stelle le spese militari saudite. Oggi l’Arabia Saudita spende oltre 70 miliardi di dollari l’anno per comprare armi e assoldare mercenari; quasi il 10% del PIL della nazione viene investito in armamenti27. Il 50% circa della spesa pubblica è assorbita in salari, ovvero in larghe elargizioni date ai sudditi affinché se ne stiano in panciolle, senza lavorare, purché non protestino e non mettano in discussione la leadership della famiglia reale28. In vista dei prossimi anni, i Saud hanno programmi ambiziosi, sintetizzati in quello che chiamano Vision 203029, cioè un piano di sviluppo che mira a fare dell’Arabia Saudita un paese moderno, dall’economia diversificata e non più dipendente dalle sole esportazioni di petrolio. Finché il prezzo del petrolio continuerà ad essere così basso, è difficile ipotizzare che questo ambizioso progetto possa andare in porto. Anzi, diciamo pure che sarà impossibile, anche perché i sauditi non sono capaci di lavorare. Ci pensano gli schiavi a lavorare per loro30. Credete forse che gente che vive ancora sul lavoro degli schiavi sia capace di dare vita qualcosa di buono? Questo programma di sviluppo – ne sono convinto – rimarrà lettera morta e nel frattempo il regime dovrà attingere sempre più al proprio fondo sovrano.
Ma c’è un altro aspetto che dovrebbe inquietare, e anche parecchio, la famiglia reale saudita. Qualora l’Arabia Saudita, alla lunga, dovesse perdere questa guerra dei prezzi del petrolio, ecco che il cosiddetto piano Kivunim31 potrebbe trovare definitivo compimento. Il piano Kivunim, come è noto, consiste nel progetto ideato dall’intelligence israeliana in combutta con quella americana di procedere ad una balcanizzazione del Medio Oriente allargato, ovvero alla disintegrazione degli stati oggi esistenti secondo linee di frammentazione etnico-religiosa.

Oggi questo piano ha subito un’importante battuta di arresto, grazie all’intervento militare russo in Siria contro i terroristi dell’ISIS che ha preservato l’integrità territoriale dello stato guidato da Bashar Al Assad. Lo stesso interventismo bellicista del sultano Erdogan si potrebbe spiegare essenzialmente con la volontà di impedire la nascita di uno stato curdo indipendente sulle rovine di una Turchia frammentata. Ma chi può dirsi sicuro che questo progetto sia stato definitivamente accantonato? E se – anziché la Siria o la Turchia – fosse l’Arabia Saudita il paese destinato ad essere balcanizzato? Alcuni commentatori non ritengono affatto peregrina questa ipotesi32. Eppure tutto ciò appare in netto contrasto con l’idea generalizzata secondo cui gli USA dovranno fare di tutto per salvare il petroldollaro. Non lo stanno facendo, non si ha affatto questa percezione. Se realmente si volesse preservare il futuro del petroldollaro, gli USA non acconsentirebbero mai allo smembramento dell’Arabia Saudita e cercherebbero di mantenere relazioni più che amichevoli con quel regno così vitale per il mantenimento della loro moneta come valuta di riserva internazionale. Invece sta succedendo il contrario. Si è scatenata una guerra dei prezzi dell’oro nero che rischia di essere tremenda per l’industria estrattiva americana, ma addirittura esiziale per la sopravvivenza stessa del regno saudita.
Dunque, che sta succedendo? E se fosse tutto vero? Se fosse reale l’intenzione dell’amministrazione Trump di abbandonare il petroldollaro al suo destino? D’altronde, non paiono esserci alternative. Viviamo in un’epoca di guerra fredda tra Cina e USA: uno scontro di civiltà, prima ancora che economico e ideologico, che potrebbe ridisegnare il mondo una volta per tutte. Con l’affermazione della Cina ai danni degli USA, in generale di un occidente che pare ormai in declino inarrestabile, finiremmo realmente coll’entrare in un Nuovo Ordine Mondiale.
Una guerra vera, guerreggiata, e non solo fredda, tra le due nazioni al momento pare improbabile: ci sono pur sempre di mezzo le armi nucleari. Per il momento, quindi, la guerra non può che essere ibrida e combattuta con mezzi fuori dall’ordinario. E piaccia o no, quello di distruggere l’intero costrutto socio-economico su cui si basa il successo della Cina, ovvero la globalizzazione, può essere una valida soluzione, l’opzione migliore, forse persino l’unica opzione a disposizione, anche se questo può condurre a strategie impensabili, come quella che contempla la fine del petroldollaro.
Se questa ipotesi così ardita si dovesse mai dimostrare veritiera, ci sarebbero altre considerazioni da fare. È chiaro che gli USA non potrebbero più a questo punto, in mancanza di questo privilegio esorbitante che derivava loro dal possedere la valuta di riserva mondiale (in altre parole, la possibilità di autofinanziarsi semplicemente stampando banconote), pretendere di poter dominare il mondo così come avvenuto negli ultimi 30 anni. Giocoforza, dovrebbero accettare un mondo multipolare, dove dovranno riconoscere ad altre potenze le loro legittime sfere di influenza. Senza andare troppo in là, basti ricordare come il succitato intervento militare russo in Siria abbia già cambiato le carte in tavola nel Vicino Oriente: oggi la Russia è diventata il vero punto di riferimento nella regione, mentre gli USA, più o meno alla chetichella, cercano di disimpegnarsi dal teatro mediorientale. Potrebbero persino cambiare gli equilibri nel Mar Mediterraneo e – perché no? – pure in Italia, fermo restando che difficilmente gli USA rinunceranno al controllo della loro speciale “portaerei” nel Mediterraneo. Contemporaneamente, gli USA tenderanno a ritirarsi all’interno del continente americano. Non sarebbe altro che la riproposizione della cara e vecchia Dottrina Monroe33, secondo cui il continente americano verrebbe considerato l’esclusivo giardino di casa dell’impero statunitense, dove non sarebbero ammesse intromissioni da parte di potenze esterne. Per altro, questo potrebbe persino bastare agli USA per prosperare tranquillamente: il continente americano è ricchissimo di materie prime ed il Venezuela possiede le più importanti riserve di petrolio al mondo, oltre che tanto oro. La Russia potrebbe persino avere carta bianca in un’Europa in cui la presenza militare della NATO si potrebbe fare molto più rada.
È giunta l’ora di concludere questo lunghissimo articolo.
Non ci rimane che formulare una battuta: chi vivrà vedrà. Vedremo veramente quello che succederà nel prossimo futuro e come il mondo si evolverà. L’incognita è la Cina. Come reagirà il dragone di fronte alla prospettiva di non poter più diventare l’unica potenza egemone in un mondo che loro vogliono dominare in maniera assoluta? Perché è questo che potrebbe succedere: si sta andando verso un mondo multipolare, dove ovviamente la Cina avrà il suo spazio vitale ma forse non la possibilità di essere l’unica superpotenza mondiale. Accetterà di buon grado, con l’eventuale riduzione della globalizzazione, un ridimensionamento politico-economico degli Stati Uniti che potrebbe però essere foriero di un equivalente ridimensionamento da parte sua? O vorrà invece giocare il tutto e per tutto per poter assurgere al ruolo di unica potenza mondiale? Ed in questo caso, come reagirà l’altra grande potenza mondiale, ossia la Russia? La Russia condivide con la Cina un lunghissimo confine e non è affatto un mistero che le enormi ricchezze materiali dell’estremo oriente russo, così lontane da Mosca, suscitino gli appetiti imperialisti del dragone. Si deve per forza dare per scontato che la Russia non possa mai trovare un accordo col vecchio nemico americano? Nemmeno davanti alla prospettiva di una minaccia comune costituita dalla Cina? In fin dei conti, vi è stato un passato in cui Russia e USA sono stati amici. Successe ai tempi della Guerra di Secessione americana. In un momento di debolezza, gli Stati Uniti rischiarono di essere invasi dalle truppe francesi e inglesi, che volevano correre in aiuto degli stati confederati. Questo avrebbe portato ad un conflitto più ampio e, in caso di sconfitta dell’Unione, allo smembramento degli USA medesimi. Ma i propositi interventisti dei francesi e degli inglesi si arrestarono quando lo Zar Alessandro II inviò nel settembre del 1863 la flotta russa dell’estremo oriente a San Francisco e quella del Baltico a New York per dimostrare la propria solidarietà alla causa dell’Unione. Non è esagerato affermare che in quell’occasione gli Stati Uniti furono salvati dai russi34.
Ai posteri, dunque, l’ardua sentenza. Tuttavia, attenzione: viviamo realmente in “tempi interessanti”, ed il passaggio da un sistema imperiale ad un altro non è mai un processo lineare e pacifico. Oggi siamo realmente a questo punto qua:

- FONTI:
- 1 https://www.huffingtonpost.it/2017/05/25/trump-incontra-bruxelles-tusk-divisioni-su-russia-clima-e-co_a_22109117/
- 2 https://www.forbes.com/sites/billybambrough/2020/03/28/donald-trump-and-the-fed-are-destroying-the-us-dollar/#2b8456206ebc
- 3 https://medium.com/@Blockchance/trump-putin-and-jinping-together-stand-for-a-global-blockchain-based-currency-system-eb6554f7700d
- 4 https://www.businessinsider.com/trump-meeting-john-allison-bank-ceo-abolish-the-fed-gold-standard-2016-11?IR=T
- 5 https://www.zerohedge.com/news/2018-06-17/donald-trumps-madness-new-gold-standard
- 6 https://www.rt.com/business/433950-russia-us-treasury-dumping/
- 7 https://www.barrons.com/articles/china-and-russia-buy-gold-in-case-a-currency-war-breaks-out-51568367004
- 8 https://www.bbc.com/news/business-45881966
- 9 https://www.bloomberg.com/opinion/articles/2020-03-27/federal-reserve-s-financial-cure-risks-being-worse-than-disease
- 10 https://www.investopedia.com/articles/personal-finance/050515/how-swift-system-works.asp
- 11 https://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=45825
- 12 http://america24.com/news/iran-scattano-nuove-sanzioni-usa-swift-nel-mirino
- 13 https://www.russia-briefing.com/news/russian-chinese-alternatives-swift-global-banking-network-coming-online.html/
- 14 https://www.ilsussidiario.net/news/guerra-del-petrolio-lo-scontro-riad-mosca-fara-molte-vittime-cina-esclusa/1995980/
- 15 https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/il-prezzo-del-petrolio-e-le-conseguenze-impreviste-del-coronavirus-25010
- 16 https://mercati.ilsole24ore.com/materie-prime/commodities/petrolio/BRNST.IPE
- 17 https://energiaoltre.it/il-breakeven-del-prezzo-del-petrolio-russo-scende-a-livelli-bassi-del-decennio/
- 18 https://www.insideover.com/economy/russia-refuses-opec-deal-to-cut-oil-production.html
- 19 https://www.ccn.com/collapsing-crude-prices-will-bankrupt-u-s-shale-oil-stocks/
- 20 https://sputniknews.com/us/202003191078625692-us-to-top-up-strategic-oil-reserve-with-77-mln-barrels—department-of-energy/
- 21 https://www.bloomberg.com/news/articles/2020-04-13/trump-s-big-oil-deal-won-t-save-the-weakest-of-shale-producers
- 22 https://www.agi.it/economia/news/2020-04-04/petrolio-trump-opec-dazi-8206203/
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- 27 https://en.wikipedia.org/wiki/List_of_countries_by_military_expenditures#cite_note-8
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- 29 https://en.wikipedia.org/wiki/Saudi_Vision_2030
- 30 https://www.lindro.it/burundi-arabia-saudita-prestiti-in-cambio-di-schiavi/
- 31 https://www.altreinfo.org/attualita/1550/il-piano-kivunim-destabilizzare-e-balcanizzare-tutti-i-paesi-arabi/
- 32 https://www.voltairenet.org/article209442.html#nb3
- 33 https://it.wikipedia.org/wiki/Dottrina_Monroe
- 34 https://www.altreinfo.org/una-storia-diversa/5573/guerra-di-secessione-come-la-marina-russa-salvo-gli-stati-uniti/
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- https://www.orazero.org/dalla-antica-alla-moderna-talassocrazia-piccole-note-di-storia-e-geopolitica-parte-1/
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- https://www.orazero.org/dalla-antica-alla-moderna-talassocrazia-piccole-note-di-storia-e-geopolitica-parte-3/
- https://www.orazero.org/dalla-antica-alla-moderna-talassocrazia-piccole-note-di-storia-e-geopolitica-parte-4/