Originariamente pubblicato su Il blog di Alceste

Più si avvicinano le elezioni più ci si rifugia nell’afrore delle vecchie tane. Privi di un empito morale alto e imparziale, e d’una riflessione risolutamente filosofica, quella che scruta, onnicomprensiva, dall’alto, sempre, tutti i fenomeni, estraendone un comune senso denominatore, un evidente nesso logico e metafisico, i controinformatori annusano stancamente le solite vecchie chiappe. Ogni loro argomentazione, ogni diagramma, qualunque deduzione viene improvvisamente obliterata dal richiamo verso la boscaglia del conformismo. Un istinto ferino e ingannevole che li riporta all’origine della depravazione postmoderna: la democrazia liberale. Gilet gialli, secessione catalana, Trump, Donbass, Greta, centri sociali e Casapound, Marx e Junger, signoraggio e MMT, Houllebecq e Saviano residuano come vignette sbiadite; non significano più nulla questi avvenimenti a fronte del ciangottare tribunizio, dell’appartenenza da cani rognosi: ecco, allora, la dea ex machina, la matita copiativa. Comprendere che tale istinto – l’ansia della croce di Bertoldo – fu instillato sapientemente, nei decenni, proprio per formare ciò che loro son oggi, marionette da urna – comprendere tutto questo è impossibile. Impossibile elevarsi, dimenticare goffi rancori; la campanella suona e tutti accorrono alla lotteria.La lotteria di Shirley Jackson (The lottery, 1948) rimane uno dei racconti fantastici moderni più belli di sempre. È ambientato in un paesino di trecento anime della provincia americana profonda, al principio dell’estate. Ci si raccoglie assieme, si parla del più e del meno. La prosa della Jackson è piana, non allude, lascia trasparire ciò che avviene. Il lettore, però, avverte qualcosa di inusitato. Gli abitanti del villaggio hanno, forse, un sorriso tirato di troppo? Lo splendore della stagione cela qualcosa di abominevole? Perché i bambini ammucchiano sassi in piccoli cumuli? Si prosegue. Vi è un’estrazione, oggi, 27 giugno, l’estrazione della lotteria. Ognuno è tenuto a partecipare; anzi, a dirla tutta, è un obbligo partecipare, un dovere civico. Chi ha ideato la lotteria? Nessuno lo sa. Qualche paese, forse, l’ha già abolita? Ma ecco, inizia la procedura, coi trecento nomi nella cassetta nera. Ma ecco: abbiamo la vincitrice. Una vincitrice atterrita: perché io? Perché io? La folla, però, non si pone domande. È stato sempre così, in fondo, da quando istituirono, con i suoi doveri inderogabili, la lotteria. Perché rinunciarvi? Esistono, forse, delle alternative al rituale? No. Uomini e donne si chiudono attorno alla signora Hutchinson, la vincitrice:“I ragazzi avevano già preso le pietre, e qualcuno ne aveva dato una anche al piccolo Davy Hutchinson. Tessie Hutchinson era adesso in mezzo a uno spazio vuoto, e tendeva disperatamente le braccia mentre la gente del villaggio avanzava verso di lei. ‘Non è giusto’ protestò ancora. Una pietra la colpì sulla tempia. Nonno Warner diceva: ‘Avanti, avanti tutti’. Steve Adams era tra i primi, e accanto a lui c’era la signora Graves. ‘Non è giusto, non è giusto’ gridò ancora la signora Hutchinson, e poi tutti calarono su di lei”.

Perché le elezioni? Perché tale rituale? Per far vincere le mie idee! Credere che un’associazione a delinquere qualsivoglia (la mia è una definizione tecnica: si sanno  i nomi e i cognomi), di destra o di sinistra, possa far vincere le idee sembra già un motto di spirito sadico. Prestar fede a individui che non lavorano, non producono e passano il tempo a ingannare i propri elettori –  tutto questo lo interpreto come indizio d’un cancro dello spirito apparentemente inestirpabile. L’Italia non declina solo per la pressione di forze esterne, ma in primis per una putrefazione interna delle coscienze logiche.

Se Mani Pulite ha interrotto una pur labile tradizione politica (il crollo dell’aristocrazia precede sempre il crollo della civiltà), è altrettanto vero che le riforme della scuola e delle università hanno minato – scientemente – l’intelligenza del Paese. In numerose occasioni ho rimarcato la differenza tra uomini dell’immediato passato e quelli di oggi. La frattura può individuarsi, a livello globale, alla fine degli anni Settanta.

Alla fine degli anni Settanta l’Unione Sovietica era data per spacciata. Emmanuel Todd licenzia La chute finale. Essai sur la décomposition de la sphère sovietique addirittura nel 1976. E caduta fu. Potremmo anche arditamente supporre: il ruolo geopolitico dell’URSS si era esaurito. La globalizzazione sfrenata comincia a prendere la rincorsa da allora. Leggi e leggine presero a sventolare secondo il novello ponentino, improvvisamente: la distruzione del cinema e del teatro italiani, a esempio, ebbe in quel tempo la propria rovinosa scaturigine. Guerre stellari, quell’impasto facilone di spiritualismo new age e fantasy d’accatto, tipicamente americano, segna la nuova via al blockbuster. La commedia all’italiana, lo spaghetti western e il poliziottesco, ultimi vagiti dell’arte popolare da grande schermo, cedono di schianto, assieme alle seconde e terze visioni, non più protette a livello nazionale. Ricordo ancora lo sgomento d’un mio parente quando gli fu impedito di ri-vedere un film: lui che si abbandonava per ore sulle poltrone di legno dei cinemini di periferia, con un sacco di bruscolini fra le mani. Il progresso avanza: con poltrone numerate, mandrie di clienti ben organizzati, dolby surround, bigonci di pop corn a dieci euro, bolse insulsaggini hi-tech per ogni palato.

L’Italia raggiunge il suo picco produttivo nel 1979. La Germania è a un passo, forse dietro di noi. 1979: si respira benessere. I soldi circolano. In realtà, mentre ogni Italiano è affacendato a comprarsi casa, auto e vacanze di prim’ordine, si comincia lentamente a lucrare sul grasso accumulato. Il nostro destino viene segnato allora. In un paio d’anni ci si libera definitivamente di terroristi e sindacalisti, nell’ordine. Il 28 marzo 1980 l’irruzione di via Fracchia a Genova: quattro brigatisti giustiziati, uno dei colpi decisivi per seppellire quegli insetti molesti che avevano sì servito la causa globale, ma ora, al cospetto del Nuovo Ordine a Venire, dovevano essere tolti di mezzo; il generale dei Carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa, mente dell’operazione, verrà a sua volta eliminato un paio d’anni più tardi. Il 2 agosto 1980 è la volta della strage di Bologna con l’affondamento della destra eversiva: sia stata essa o meno l’organizzatrice della strage, ai fini del corso della storia, non è importante. Giusva, il giovin attore, fu uno stragista? Non interessa al potere la responsabilità, contano gli effetti. Il 14 ottobre 1980 ecco la Marcia dei Quarantamila a Torino che sancisce la disfatta completa dell’ala sindacale operaista. In pochi mesi la disinfestazione italiana è completa. Il PCI è già socialista nel peggior modo possibile, i socialisti una parodia del socialismo. Residuano alcune temibili personalità che, fuori controllo, potrebbero dar fastidio. Per loro si appronta un’ulteriore bonifica, primi anni Novanta, dopo la celebrazione, in diretta, tra finte stragi, carri armati di cartone, muri sbriciolati e statue abbattute, della festicciola di congedo del comunismo.

Sono almeno trent’anni che si vota un partito unico, ma i controinformatori non sono ancora sazi. Spiace vedere vecchi leoni da tastiera – con gli occhi iniettati di sangue – prestar fede a cialtroni o caporioni del malaffare come se fossero i futuri salvatori della Patria. Mi si rivolta lo stomaco a guardare lestofanti che agitano simboli aviti dai palchi del prendingiro; un disgusto addirittura superiore a quello che mi attanaglia quando vedo i katanga vaticani distruggere quel che resta di noi. È tutto un teatro, una barzelletta, una manfrina ignobile.
La speranza in tali figuri è grottesca. Che venga da individui che si presumono informati o forgiati dalla storia recente mi risulta inspiegabile. Deprivati della vera cultura, allevati come polli in batteria, semianalfabeti, o tecnici, di quella tecnica che ha imperio su minuscoli e inessenziali settori dell’esperienza e della vita, gli Italiani credono a ogni fanfaluca che gli venga dal peggior proscenio di guitti. Per quanto possa sembrare incredibile c’è gente che ha fede in Giorgia Meloni. Sì, è così. A fronte di tale rivelazione non posso che alzare le mani. Oppure limitarmi a scrivere tali sciocchezzuole che leggeranno in due. Ma perché scrivi, mi dice una conoscente? Per non imputridire del tutto, rispondo. Cerco di tenere alta la bandiera dell’Italiano. Ho l’arroganza di presumere una mia personale resistenza.

Il mezzo è il messaggio. Riformuliamo: il mezzo è il dominio. Accedere a PC e social equivale a essere dominati nei cuori e nelle menti. Un qualsiasi I-phone serve strutturalmente il potere. Confondere accenti e apostrofi, trascurare la punteggiatura intermedia (i diesis e i bemolle della scrittura), indulgere negli anacoluti, tutto questo è dominio delle menti e dei cuori. Annientare la scuola e il pensiero critico, questa l’altra metà della disfatta. Uomini e donne con la quinta elementare han creato ricchezze che oggi i loro figli laureati dissipano nell’insipienza.

Questa, però, è solo la versione semplicistica della disfatta. In gioco c’è altro. Ed è la preterizione della nostra cultura. La cultura non è solo studio oggettivo bensì culto assiduo, rispettoso e cauto di ciò che fu. Un diciottenne d’oggi è solo un involucro di basse nozioni tecniche che ha poco o nessun rapporto con la lingua materna (si esprime con pericolanti lessemi fàtici e luoghi comuni agghiaccianti) e con l’Italia stessa. Nulla di Italiano gli è davvero presente. Il rapporto col territorio, anche col passato recentissimo, è in lui atrofizzato. Non sa, l’omettino, manipolabile e pronto a vergar croci a casaccio, che essere qualcosa significa essere Italiani. 
La Commedia dantesca, a esempio, non è il rapporto confidenziale di un fiorentino sulla geopolitica del tempo, ma il correlativo oggettivo di un’anima eterna. Se Dante parla di torri e boschetti vuol parlarci di certe torri e di certi boschetti italiani. Comprendere quelle torri e quei boschetti, smaltati nelle miniature medioevali, ci rende Italiani; ovvero – è dura da accettare – uomini e donne completi. Fiumi, boschi, pietre fanno già parte di noi; occorre recuperarli alla coscienza.

Rainer Maria Rilke: “Per i nostri avi una casa, una fontana, una torre, perfino i loro vestiti, il loro mantello erano più familiari che a noi; ogni cosa dava ricetto all’umano. Ecco che premono verso di noi, venute dall’America, le cose vuote, indifferenti, apparenze di cose, simulacri di vita … una casa nell’accezione americana, una mela americana o una vigna di laggiù non hanno nulla in comune con la casa, il frutto, il grappolo nei quali erano compenetrati le speranze e la meditazione dei nostri avi … Le cose dotate di vita, ammesse alla nostra confidenza, sono in declino e non possono essere sostituite. Siamo forse gli ultimi che avranno conosciuto tali cose. Abbiamo la responsabilità di conservare non solo il loro ricordo, ma il loro valore umano e larico (nel senso dei lari, divinità della casa)”.Si può dileggiare quanto si vuole tale attitudine; la sua inosservanza la si paga, però, con l’inessenzialità.

L’homo novus è fungibile. Egli è privo di individualità. Rileva nel peso e nella misura. Si può ammucchiare a piacimento. Trasportare a piacimento. L’homo turisticus o l’homo ludens, epifenomeni dell’ominicchio, vanno gestiti – è un termine tecnico – a pacchetti. Intercambiabili. In nemmeno quarant’anni siamo passati dai trionfi campanilistici a tale ciarpame omogeneo da statistica. Ecco il Nuovo Ordine. Ecco perché era necessario bonificare il passato. Ecco perché vi fanno votare.

L’homo turisticus si lamenta. Piove. La pioggia rovina non so quali sue necessarie escursioni durante lo Shabbath o la domenica. La realtà, che sia ancora primavera e che l’Italia abbondi di poesie sulle piogge primaverili, non lo tange. Egli ha in mente il depliant sulle Maldive, ergo: ogni territorio che, purtroppo, lo ospita deve conformarsi al nuovissimo immaginario esotico costellato da ombrelloni e daiquiri a bordo piscina: a partire, almeno, da aprile. Il sillogista turistico sfoga la propria ira a vedere i cieli abbrunati e gonfi di tempesta: è aprile e ancora non c’è il sole!Aprile dolce dormire, mercé le festività e quegli astuti collegamenti tra le festività: i ponti.D’altra parte non trova, forse, l’ometto, la stessa frutta tutto l’anno? A cosa servono le stagioni? Lui ha da trovare sul banco pesche e angurie anche a novembre nonché il sole tropicale, a Capocotta City, al principiare della primavera.

Una conoscente mi rampogna: tu non piangi mai, non ti commuovi mai. Ma, essendo lei una conoscente, evidentemente poco mi conosce. È vero, amo ostentare, non saprei perché, una tetragona indifferenza. Mi viene naturale. I rovesci della vita o alcuni lutti mi hanno spesso sorpreso nell’impassibilità. Alceste è di ghiaccio! Colui che sa, però, non può stupirsi. Mostrare il dolore o la felicità è per chi non sa. Solo per lo sciocco il sole è nuovo ogni giorno. D’altra parte, lo ripeto ancora una volta, la disperazione quale basso continuo dell’esistenza fa parte dell’autentico occidentale. L’Occidente nasce nella tragedia, ovvero nel coniugare una feroce voglia di esistere con la consapevolezza dell’inevitabile. Sapere di dover morire eppure creare il bello, appagarsi del bello e vivere di tali consolazioni: una vita normale, apparentemente quieta, che non impedisce, tuttavia, slanci e sacrifici folli, impensabili per l’omarino attuale.

In fondo sono cinque le pulsioni impellenti che animano l’essere umano-mangiare-bere-dormire-cagare-scopareSe il soggetto riesce a soddisfare efficacemente tutte e cinque le pulsioni potrà affermare di avere una vita soddisfacente …”.Tali inaspettate perle vengono da un controinformatore che, poco prima, coerentemente con tale etica del basso ventre, se la prende con la morale cristiana. Essere contro e militare nelle stesse fila dell’informazione di regime non sembra costituire una subdola incoerenza. Dileggiare il passato, analizzarlo quale complotto (in tal caso il complotto morale del Cristianesimo), assomiglia tali materialisti di nuovo conio ai biglinatori, ai Rousseau del migrazionismo, ai libertini, ai destitutori più accesi: chi sembra contro in verità condivide le idee del presunto nemico.

Per i riduzionisti del materialismo gaudente le costruzioni di mill’anni che hanno permesso il pensiero e la vita sono fastidiose costrizioni che impediscono la realizzazione dell’autentico Libero Sé.Michel Houllebecq, l’antislamista col ticchio dell’orgia, e Michel Onfray, l’epulone col ticchio dei Gilet Gialli, appartengono a tale genia del basso ventre.Siamo alla controinformazione intestinale e uretrale.Non ci si stupisca, poi, se tale gente svanisce nel nulla. Perché no, dato che è schierata con chi, a parole, combatte?

Il potere, questo è sicuro, può dormire sogni tranquilli. Stiamo tornando precipitosamente, travestiti da epicurei straccioni, alla pozza protozoica, all’ominicchio aborrito da Leonardo da Vinci, transito di cibo e aumentatore di sterco: un bugliolo semovente.Ma qui, ecco la novità, siamo oltre l’uomo-bugliolo schifato da Leonardo e persino al di là del moralismo cristiano di Thomas Eliot che fa dire al laido Sweeney: “Nascita, e copula e morte/Tutto qui, tutto qui, tutto qui/Nascita, e copula e morte/E se tiri le somme è tutto qui/Nascita, e copula e morte“.Siamo alla tenia.Tale è l’uomo postmoderno, una tenia, parassita perfetto che il Potere relega nella poltiglia lattiginosa del chilo intestinale della dissoluzione civile.A un passo dalla merda.La tenia, nella sua apocalisse in poltrona, ha persino rinunciato a una bocca e un proprio apparato digerente. Anche il trangugio gli è di troppo. Essa galleggia alla fine dei tempi, in una poltiglia già masticata e acidificata da altri, assorbendo ed espellendo; è meno d’un lombrico: più il fantasma d’un umanità credutasi assolutamente libera.Sciaguatta, la tenia, rivoltolandosi su sé stessa: mangia beve dorme caca e addirittura si riproduce. È in pace con l’universo.Tale il destino dell’Ultimo Uomo.Ecce homunculus.Che alcuni dissidenti ambiscano questo dice tutto sulla fecondità del dissenso controinformativo italiano.

Eppure, a volte, mi commuovo.Ho fra le mani la riproduzione d’una mappa antica, cinquecentesca. Minutamente dettagliata. Acquerellata con cura: bruni, verdi, gialli. I caratteri, neri, sono ben scanditi. Spiccano, aureolati da chiazze smeraldo, i corsi dei ruscelli. Da nord scende il fiume principale, cui si legano gli affluenti maggiori e i loro fossetti secondari che terminano la propria irruente corsa dopo poche centinaia di metri.
Ogni punto di riferimento gode di un nome preciso che si nutre delle particolarità del territorio.Stampo, quindi, una schermata di google maps dello stesso territorio, oggi, 2019.Sovrappongo le due immagini: coincidono, ad annullare il mezzo millennio.Certo, dove l’urbanizzazione è più fitta i contorni antichi sono perduti, o solo malamente intuiti. Laddove la mano dell’uomo non ha ancora imperio, tuttavia, il passato riemerge e ci parla con gli antichi nomi. Un’osteria a capanne, le acque sorgive, un muraccio romano, il fontanile. Ecco, il fontanile. Esisteva nel Cinquecento: avrà lasciato traccia dopo cento lustri? Dopo rivoluzioni popolari, rivoluzioni tecniche, guerre, massacri, terremoti, devastazioni?Mi inoltro, un pomeriggio domenicale, nella campagna romana. Il sole è pallido: “The sun is spent, and now his flasks/send forth light squibs, no constant rays”. I pianori si accendono di luce e si rabbuiano velocemente in un alternarsi ricco e stano. Solo in un quadro di Rembrandt ritrovai tale Stimmung, a mezzo fra crepuscolo e giorno, fra primavera e autunno. La campagna romana: desolata, brulla, viva.
In essa pulsa l’assenza.Ciò che fu e non è più grava sulla coscienza, a ogni passo; un dosso, una pietra qualsiasi, possono occultare rivelazioni.Scorgo i ruderi di un casale novecentesco attorniato da fichi selvatici: essiccatoi, l’abbeveratoio, le stalle, una torretta. Le pareti scialbate.Nella valletta a destra ancora scorre l’acqua del Cinquecento. È lei, lo so. Il fontanile era al principio di tale ramo secondario. La carta è assolutamente precisa.Un roveto gigantesco, intoccato dalla mano dell’uomo, s’intreccia a una vegetazione spontanea e scarmigliata: queste acque, che rigano la terra da tempo immemorabile, la nutrono lentamente.Mi apro la strada, a forza. Per fortuna sono da solo, mi scambierebbero per un pazzo.Dopo un’ora sono avanzato di tre o quattro metri nella macchia: intravedo alcune pietre grigie.Tendo la mano, nell’intrico. Le tocco. Tanto mi basta. 

Amore e Morte fratelli a un tempo stesso ingenerò la sorte. Non c’è bisogno delle interpretazioni al contrario di Freud per comprendere. La repressione non è repressione: è civiltà. La repressione ha generato la civiltà. E noi dobbiamo venerare essa, per sfuggire al Nulla e capire. Toccare le pietre di un fontanile cui si abbeverarono armenti e genti che vivono, inevitabili, in noi.Questo è amore, tale il patriottismo.Io sono una forza del passato. Solo nella tradizione è il mio amore. Vengo dai ruderi, dalle chiese, dalle pale d’altare, dai borghi abbandonati sugli Appennini o le Prealpi. Dove sono vissuti i fratelli.E così sia.

Amore e Morte, la morte fisica, amica, francescana. L’Amore per noi stessi, il culto che ci dona sapienza e vita inesauste.

Mi son visto due film sulla guerra.Ouranos (Il cielo, 1962) di Takis Kanellopoulos e Voskhozhdenie (L’ascesa o Ascensione o Elevazione, 1977) di Larisa Shepitko.Sono opere sulla Resistenza. Nel film greco si ravvisa un registro antitaliano (con citazioni da inni e marcette contro Benito Mussolini e i mangiaspaghetti), in quello sovietico uno antitedesco. La buccia polemica, però, si esaurisce qui. Anzi, si può affermare, a distanza di mezzo secolo, che questa patina, importante, forse, ai tempi dell’uscita nei cinema, oggi è solo l’occasione per parlare d’altro.Un’opera d’arte è tale perché si rinnova continuamente anche contro sé stessa.E tale “altro” risiede nel rapporto, necessario e costante, dell’uomo con la Morte.La Morte fisica, amica, Sorella Morte.

Ouranos

Il cielo.Il soldato greco Stratos esce di mattina dall’avamposto, composto da altri quattro commilitoni e dal sergente; il  narratore dice: “Eravamo quasi una famiglia”. Stratos si dirige verso il fiume. Dopo una forte pioggia, il silenzio posa su tutto. L’alba, umida, rivela il paesaggio, limpido: ne fanno parte gli uomini e le cose, indistinguibili all’occhio della Natura tutto volve: un casale, le moontagne, i sentieri, le pietre, i filari dei pioppi, il largo incedere delle acque. Il soldato raggiunge la riva; dall’altra parte è una ragazza. Lava dei panni. Egli la chiama, vuole conoscere il suo nome, si strugge d’amore; Stratos grida, intende conoscere la famiglia, sposarla; la ragazza, Sophia, rimane muta, ma ascolta. Si confiderà poi con un’amica. L’amore sboccia, timido. Cosa sarà dei due amanti, separati dal fiume e dalla guerra?L’esercito greco, intanto, a prezzo di immani sacrifici, riconquista le posizioni perdute. Si muore, si spera. Improvvisa, però, la disfatta. La rotta. Come i Diecimila di Senofonte. Nell’esercito in ritirata c’è anche Stratos. Un drappello si soldati si accampa, lungo un fiume, ancora. Ma è un altro fiume. Stratos guarda un compagno che si disseta, a un antico fontanile; forse un dolce ricordo lo punge; la speranza perduta miscelata all’onta della sconfitta; la sensazione di non poter più cambiare il corso degli eventi; egli carica il fucile; la detonazione; i compagni accorrono.La vita fugge lontana.

Stratos, l’Armata, la Guerra; e Sophia, la Sapienza. 

Ascensione.Due soldati russi, Sotnikov e Rybak, combattono gli invasori tedeschi nella neve. L’incantata e sospesa purezza della Natura sovrasta la flebile voce dell’uomo. Ramaglie bucano il manto candido e immenso della terra.Alcuni uomini vengono traditi. Sono fatti prigionieri e condannati a Morte.La Morte, ancora una volta, rivela l’uomo a sé stesso, ne fa un personaggio completo. Di fronte alla Morte c’è chi si aggrappa alla vita, a costo di rinnegare, meschinamente, il compagno: il Giuda Rybak; Sotnikov, invece, sublima nell’Amore. Non un amore carnale, stavolta, ma l’eterna trasfigurazione d’esso in una elevazione totale, incomprensibile ai più. Sotnikov distilla una nuova conoscenza a contatto con la Morte, si fa Santo; di fronte al cappio omicida ora Egli sorride. Asceso il Golgota assieme ai centurioni tedeschi, a fianco del Caifa russo, ha ricevuto il bacio di Giuda; ora, sul Monte del Teschio, Egli sorride.La comprensione totale dell’universo è in lui; da tali altezze perdona: vittorioso.È lo stesso sorriso che trovammo in ogni tempo: Dioniso uccide col sorriso sulle labbra, gli sposi etruschi sorridono, la Monna Lisa sorride, Cristo, prima del dolore e delle tibie spezzate, sorride. Tale è la tradizione dell’Occidente, classica e cristiana, che sorride: la conoscenza della Morte crea l’Amore per la Vita.Amore e Morte, fratelli a un tempo stesso, creano il Santo, l’Artista e il Sapiente.

La fede in ciò consiste: rimanere fedeli a ciò che si è sempre stati, resistere ai subornatori, ai sobillatori, a chi vuole la vita facile, resistere alla sconfitta, al tutto è perduto, vivere nonostante trionfi la lectio facilior. Avere fede nel sangue: tale dichiarazione, benché il Potere l’abbia circonfusa d’un alone doloso di regressività, è vera.

Due tipi d’uomini forma la guerra, entrambi tragici: chi ha orrore di sé stesso poiché più non riconosce sé stesso; chi persiste, a ogni costo, a prezzo di tutto, per vincere.

L’Imitatio Christi è ormai il libretto rosso dei rivoluzionari.

Il Santo sorride delle minuzie della Vita. Egli, da altezze imperscrutabili, ama; l’Artista oggettiva la bellezza, trasfonde sé stesso e la propria civiltà transeunte, Egli ama, con riso leggero e profondo, tutte le cose; il Sapiente sorride a sua volta, riguardando la propria anima: l’Eterna Notte lo schiaccia con la Verità, il Cielo, Ouranos, ne eleva lo Spirito, nella Gioia.

Alceste