
Roma, 4 marzo 2020
Cosa mi ricordano i media durante l’epidemia (non ancora pandemia) del COVID19, volgarmente detto coronavirus? Lo strillone del circo, sicuramente. Non uno a caso, ma quello in particolare che, piantato alle soglie del tendone, fra gli afrori del letame e della paglia, invita i micchi, viso serioso appena increspato da un ghigno: “Venghino, siore e siori, più animali entrano più bestie si vedono!”.
Giovanna Botteri appare nella grotta di Lourdes dei TG nazionali, a scadenze regolarissime, da palinsesto mariano. Il fondale è il consueto, da quando l’hanno spedita nelle remote regioni del Catai: grattacieli, illuminati, al tramonto; una Pechino ormai lanciata verso la Monarchia Universale, positiva, anomica, controllatissima. Una Pechino, in tal senso, sempre meno pechinese; assomiglia, infatti, a una squallida metropoli americana. La Botteri, Angelica ariostesca del Catai, la cotonatura bionda sempre più fluente, assai diversa dalle bisunte ciocche del Kosovo, ci parla dell’epi-centro epi-demico, Wuhan, con toni apocalittici seppur di contenuto catastrofismo; pare un dinoccolato Isaia: preoccupiamoci, insomma, per il virus-fine-di-mondo, ma non troppo. Come a dire: se seguite ciò che vi diciamo di seguire non succederà poi molto. Il cibreo secondo Giovanna è petaloso, insulso, ricco di umanità corretta; nessun dato o cifra oggettiva turba la calma dell’insignificanza; traspare l’amore per il Cinese, almeno per il Cinese che fa ciò che gli si ordina, in perfetta armonia. L’Italia ama la Cina e tutti i musi gialli, insomma: si uniformino alla nostra bontà, tuttavia!
La Cina, l’Iran, la Siria … e frattaglie. A ciò si riduce la resistenza dell’umanità contro il potere imperiale. A meno che non siano già d’accordo i Luke Skywalker di Persia, Siria e Cina: lo spettacolo a cui assistiamo, in tal caso, non sarà che una lotta all’ultimo sangue per tirare sul prezzo. Ma stanno morendo migliaia di donne e di uomini! Non ci formalizziamo sugli spicci, per favore.
Duemila, tremila, diecimila cinesi morti. Tex Willer, in una sola vignetta, ne fa fuori otto. Chiamandoli “musi gialli” e “limoncini”.
Sì, guardo donna Botteri recitare il rosario; e sgranare episodi terribili alternati ad altri, edificanti, secondo il bastone e la carota di un accorto shock and awe, sempre efficace con la pastafrolla italiana; eccola presentare anonimi filmati di repertorio, presi chissà dove, o cicalare di statistiche raccattate dal web. La gracchiante soundtrack m’induce, irresistibilmente, al mondo sospeso dell’immaginazione. Al temporaneo nepente dell’idiozia.
Sì, la Botteri parla e io, come spesso accade – la mezza età e la peptonizzazione serotina si elevano a determinanti concause – sono colto da blande allucinazioni. Il noumeno s’espone in evidenza, la realtà dilegua. Ecco che, in basso a destra, noto un piedino … quello di Cleopatra? No, beninteso, non un piedino umano … solo un di quelli che sostengono i totem cartonati … il piedino cede … e il fondale, coi grattacieli illuminati … le stesse identiche finestre illuminate da un mese a questa parte … si arrovescia all’indietro … in un ralenty da circo equestre subacqueo … sin a scoprire la scena retrostante … il soggiorno della stessa Botteri (a Monteverde?) … rigato da cavi elettrici e baluginante di modem e visori … un paio di operatori RAI, debitamente stravaccati, assemblano il quotidiano newspaper digitale della catastrofe … a destra, impietrito e ammammaloccuto dalla sorpresa, un panciuto barista romano con un vassoio di rustici, spritz e tartine … lì convenuti … barista rustici spritz e tartine, intendo … onde rifocillare gli eroi del Catai … a spese dei belinoni che vantano fatture dell’ENEL. La falsa visione – oh, quanto falsa! – smiagola in pochi attimi … rinvengo al quotidiano, allo scialo di triti fatti … siamo già alla politica nazionale, si bercia di atti governativi e opposizioni sanguinose — non troppo cruente … le cicatrici fra compari, suvvia … quindi, inopinata, un’apparizione devastante, da LSD piccolo borghese … mi appoggio al desco sospettando un’altra crisi … invece è la realtà: proprio lui, Amadeus, non un ariostesco Amadigi, il presentatore di Sanremo, in persona, è lì a raccomandarmi il meglio per fronteggiare il virus: lavarsi le mani, nientemeno. A fronte di questo, che fare?
E appena visto er fonno ar bucaletto,’na pisciatina, ‘na sarvereggina,
e, in zanta pace, ce n’annamo a letto.
Se almeno questi fossero tempi infernali … dove regna il Male … e invece no, regna la polvere delle rovine. Danza alla luce dell’ultimo sole. Non c’è spazio per grandi imprese o scoperte né per il beau geste che, peraltro, mai sarebbe compreso. Non v’è più l’opera omnia, l’opus magnum, l’Organon – l’assalto al cielo, il cuore oltre l’ostacolo … l’autodistruzione come suprema affermazione … non v’è più il sacrificio, e nemmeno, si badi, il narcisismo del sacrificio poiché, in cuor nostro, sappiamo benissimo che non residua l’amicizia, la sodalità, la fratellanza … e l’esempio e il martirio verrebbero inghiottiti dalla dimenticanza.
Siamo chiari. Cosa conforta Leonida, Ettore, Pietro Micca? La certezza, che non abbisogna di dimostrazioni, di far parte di una comunità. Colei che canterà le gesta. La Chanson de Geste questa è. Il canto dei fratelli per gli eroi. Ettore muore sapendo d’essere immortale. Tale l’unico conforto dell’umano. Nietzsche, Leopardi, Borges, usando parole diverse, affermarono la medesima verità: gli animali terrestri o i popoli dell’aria e delle acque sono già immortali e, perciò, eternamente felici, poiché non sanno di dover morire. Ma l’uomo, questo Amleto, per lui non vale l’incanto. Il monologo presso la tomba violata di Yorick, le schiaccianti elucubrazioni sulla Morte che tutto uniforma, l’Entropia che muove il mondo, ci avverte che l’unica consolazione risiede nel canto degli amici, dei compagni, della famiglia.
A che pro il sacrificio, oggi, in un mondo senza epica?
Tirate giù i libri dalle biblioteche. I classici. Leggete, inebriatevi, annegate in quel sapere. E cosa scoprirete? Il monologo di Amleto, non altro. E la bellezza del rimpianto. Il lamento dell’amata. Il pianto dell’amante. La dolce, cristiana, rassegnazione al destino. La speranza d’incontrare i familiari nell’Oltre.
Fra tutti i sapienti del mondo, però, pochi si spinsero alle Colonne d’Ercole. Chi le oltrepassò ne rimase schiacciato. A quest’uomo, raro, un sopravvissuto, non rimase, come Huysmans, che un bivio: la fede o il suicidio. Tale essere, meno un uomo che una chimera, si aggira come un lebbroso, scansato da tutti. Egli sa. Alla fine decide di vivere. Non ha, però, il dono della fede. Quale rimedio sceglie? L’arte, è inevitabile. La giustificazione estetica dell’esistenza. La Bellezza, ora, lo tiene in vita; s’abbevera a un filo d’acqua che scorre dal passato verso di lui, purissimo.
Per tale motivo, a volte, se ne va di qua e di là, come un disperato, alla ricerca di un ruscelletto, uno qualunque. La campagna romana è una perfetta consolatrice. Le ossa delle civiltà dormono sotto di essa. Se ne avverte il respiro. Ogni tanto la terra esala parte di quel gigante: una moneta, un tratto di basolato, un muro calcinato. Allora, solo allora, può dirsi felice.
“Oltre le cause già accennate della decadenza pastorale e agricola della campagna romana, vale a dire il lusso, la concorrenza delle provincie, le speculazioni lontane, v’era quella più generale, cioè comune a tutta l’Italia, che consisteva nella sconfinata libertà di commercio con tutto il mondo conosciuto. Non metteva più conto di produrre la decantata lana delle greggi romane, quando ne veniva per vile prezzo dalle regioni spagnuole. Non metteva più conto produrre vino e frumento quando la Grecia e l’Egitto ne riempivano l’Italia. Insomma l’agricoltura italica e romana sono cadute sotto il peso della propria stessa forza … vedi l’articolo recentissimo di Leone Caetani in cui dimostra che il libero scambio abbattè l’agricoltura dell’impero romano …”.
Questo passo, tratto dal capolavoro di Giuseppe Tomassetti, La campagna romana antica, medioevale e moderna, fornisce, da tempi non sospetti (a cavallo fra Ottocento e Novecento) la chiave interpretativa della decadenza d’una civiltà che si vuol fare globale. Tomassetti illustra la prima ganascia, quella economica; Leopardi la seconda, quella ideologica: “Quando tutto il mondo fu cittadino Romano, Roma non ebbe più cittadini; e quando cittadino Romano fu lo stesso che Cosmopolita, non si amò né Roma né il mondo: l’amor patrio di Roma divenuto cosmopolita, divenne indifferente, inattivo e nullo: e quando Roma fu lo stesso che il mondo, non fu più patria di nessuno, e i cittadini Romani, avendo per patria il mondo, non ebbero nessuna patria, e lo mostrarono col fatto”, vale a dire: nessun amor proprio e amor di Patria, che dell’amor proprio è la sublimazione. Decadde lo Stato, oggettivazione della Patria, e l’individuo stesso. Chi vuol essere tutto finisce per non essere niente.
Leone Caetani (1869-1935), discendente di Bonifacio VIII, ideatore del Primo Giubileo, fu un orientalista d’eccezionale levatura, studioso del primo Islam. Fra i suoi collaboratori troviamo Giorgio Levi Della Vida e Francesco Gabrieli. Riceveva presso il palazzo Caetani, a via delle Botteghe Oscure. Suo nonno fu Michelangelo Caetani, disegnatore di gioielli, dantista, scultore, ministro di polizia e massone. A via Michelangelo Caetani, traversa di via delle Botteghe Oscure, sede del PCI, fu ritrovata la Renault rossa col corpo di Aldo Moro. Un cadavere acconciato in una forma definita; un simbolo magico, probabilmente, che avvertì chi di dovere dell’ineluttabilità della fine dell’Italia.
Matteo Salvini partecipa a “Doppio Slalom”, quiz Fininvest. Siamo nel 1988. Ha quindici anni. Dà risposte a casaccio, come fa ora (“L’uccello che mangia i cardi?” “Il cardino!”; “L’arcipelago che prende il nome da una principessa monegasca?” “La Carolesia!”); dimostra, tuttavia, un bella intraprendenza. Non ha vergogna, in parole povere. Se il sottoscritto avesse esclamato, coram populo, “Carolesia” o “cardino” avrebbe tentato il suicidio nel camerino. Un talentaccio superficiale, insomma, di chi si rialza a ogni colpo e rende le figure barbine un fiore all’occhiello. Il Matteo, che si proclama ghiotto di funghi, mette in saccoccia Lire 1.100.000. Rivalutate secondo l’evangelio aritmetico dell’Istat assommano ad attuali Euri 1268. Una discreta mesata d’oggi.
Cinque anni dopo, 1993, ecco il ventenne Matteo a “Il pranzo è servito”, sempre sponda Fininvest. Si dichiara, ancora, esperto di funghi e, poiché iscritto all’Università, “nullafacente” (da qui comprendiamo in che rango tenga la cultura accademica). Di nuovo strafalciona alla grande (“Diana Artemide è la dea greca della castità o della lussuria?” “Lussuria!”) e perde, secco; nonostante questo si porta a casa Lire 1.100.000. Rivalutate secondo l’Istat assommano ad attuali Euri 956,68. Uno dei quesiti proposti da Davide Mengacci a Matteo Salvini è un rebus: IN cassa; re T; AN gente= Incassare tangente, ch’egli azzecca disinvoltamente corredando la soluzione d’un futuribile motteggio qualunquista (“Vengo da Milano … ne so qualcosa …” o una roba del genere: si era in piena Tangentopoli).
Il rebus dimostra la perfida intelligenza di Silvio Berlusconi.
L’anno seguente un altro Matteo, Renzi, partecipa a “La Ruota della Fortuna”, versante Fininvest, ennesimo format americano traslato felicemente in Italia. Officia Mike Bongiorno. Il secondo Matteo, più sveglio del primo, si mette in saccoccia ben 48 milioni di Lire; più precisamente Lire 48.400.000 – quarantotto milioni e quattrocentomila – pari a Euri 40.394,37, sempre in accordo con gli algoritmi Istat.
Matteo I vince, due volte, a distanza di cinque anni, Lire 1.100.000.Matteo II, una volta, Lire 48.400.000.Il primo numero, scomposto: 55 x 25 x 11 (o, sommando le due vincite, 55 x 26 x 11).Il secondo numero, scomposto: 55 x 27 x 112.
In entrambi si notino le abbondanze di 5 e di 8, il lato della scacchiera, privo di alto e basso. Sono casi fortuiti, ovvio. L’11, invece, l’ominoso 11 dei Rosacroce, reca, ammettiamolo, un filo di inquietudine. Solo per un attimo.
Non pare vero al Vaticano disseccare acquasantiere, vietare strette di mano (“scambiatevi un segno di pace!”) e gite a Lourdes. Anche “Giggiani” (così egli pronunzia il termine biblico “zizzania”), il pretonzolo della parrocchia, venuto da chissà dove, si uniforma al dettato vescovile. Non pare vero manco a lui d’accelerare la funzione a tempi di record (ventisei minuti!). Al Paternoster Giggiani insiste sul “non abbandonarci alla tentazione”; ha una gran voglia di fare colazione, si vede.
E pensare che i micchi della sinistra antagonista credono che il Terzo Mondo voglia fare la rivoluzione con loro … gente più conformista e contenta dell’andazzo come africani, asiatici e romeni non si trovano in Italia … altro che rivoluzione … neanche lo ius soli vogliono, così possono sgamellare l’esistenza senza passare per l’IRPEF … lo ius soli lo reclamano solo i terzomondisti italiani col culo al caldo e solo perché glielo ordinano, surrettiziamente, dalle cucine dell’Impero. Infatti è così: sono i cuochi a imporre il menu: e ognuno lo mangia col cuore ricolmo di bontà, credendo di averlo ordinato al cameriere.
Vado a fare una ricarica Postepay in tabaccheria. Registrazione del (mio) Codice Fiscale, della (mia) Tessera Sanitaria, dell’altrui conto e dell’altrui Codice Fiscale. Lo Stato si prende due Euri, alla Tabaccaia vanno trenta centesimi. E i Filippini ambirebbe allo ius soli? Macché, succhiato qualche altro ettolitro di pensioni e stipendi se ne torneranno a Manila, e buonanotte.
Problema. Un Italiano vuole sostituire i sanitari del proprio modesto cesso. Costo con IVA e annessi, Euri 3000; costo senza IVA e annessi, Euri 2000 (un filippino di provata fiducia si dichiara disposto al lavoricchio). Soluzione: l’Italiano preleva al bancomat i due sacchi, a più riprese. Quindi organizza un poker col suddetto immigrato (privo, felicemente, di ius soli). Lo lascia vincere la somma pattuita.
Al Capone così pagava amministratori e gendarmi corrotti. Il sistema funzionò, per un bel po’di tempo. Capone venne incastrato, poi, da un tal Eliot Ness, figura secondaria portata alla ribalta da Brian De Palma ne Gli intoccabili.
Capone morirà di sifilide nel 1947, a 48 anni; Ness, rovinato e alcolizzato, dieci anni dopo, a 54.
Ritrovo alcuni miei appunti su Anna Kuliscioff, la pasionaria del socialismo italiano di fine Ottocento. Figura mitologica del proto-femminismo, bakuniniana, dapprima marxista quindi legalitaria, amante di Andrea Costa poi di Filippo Turati, altri personaggi chiave del socialismo nostrano. La Kuliscioff, che, in realtà, si chiama Anna Rozenstein, appartiene a una facoltosa famiglia ebreo-russa della Crimea. Come molti suoi coetanei (Ivan Turgenev analizza tale movimento epocale in Terra vergine), debitamente satolli, ella intraprende “l’andata al popolo”. Si china, cioè, dalla sua altezza, sul popolo in sofferenza. Anna, ricca di quel particolare istinto per la dissoluzione proprio alla schiatta di appartenenza, si getta, quindi, giovanissima, nella fucina ardente dei sommovimenti europei. Studia medicina, chiamata da Camillo Golgi, in particolar modo la febbre puerperale. Un antesignano degli studi sulla febbre delle partorienti è Ignacz Semmelweis, eroe della tesi di laurea di Louis-Ferdinand Cèline.
Nel 1878, a ventitrè anni, è in Italia. Vi rimarrà sin alla morte, nel 1925, quando l’Europa non esisterà più. In neanche mezzo secolo tre Imperi, le fedi e i credi, risulteranno frantumati, liofilizzati, calcinati da un illuminismo così trionfante che si permetterà di forgiare il suo apparente contrario: Mussolini. La Seconda Guerra, infatti, avrà solo il compito di finire il lavoro.
Sia chiaro: non si può non ammirare Anna Kuliscioff.
D’altra parte Alceste viene da lì. E, però, come insegna Borges nel fondamentale Pierre Menard, ciò che è stato, pur rimanendo identico, muta, col cambiare di noi stessi. Il passato, che è per sempre, si trasforma in Qualcosa d’Altro, solo a spostare il punto di vista o a utilizzare alcuni strumenti dapprima negletti: uno specchio, una superficie di metallo. L’informe prende forma, una forma si dilegua rivelandosi altro: l’anamorfosi disvela la Storia.
“Che cosa è dunque accaduto quest’oggi, che il mondo pare diverso?Nulla certo è accaduto, le cose son sempre le stesse, sol che l’autunno ne svela i misteri“.
Il socialismo, negli scritti della Kuliscioff, è il volto opposto del capitalismo, ma entrambi guardano da un’unica erma bifronte. Capitalismo e socialismo parlano a spettatori diversi, con parole apparentemente diverse: il loro avversario, però, è unico. Dice Anna: “Com’è stata la grande industria che diede luogo alla formazione di eserciti di lavoratori, spinti, per la forza delle cose, all’organizzazione cosciente delle loro forze, così anche la grande industria sarà la benemerita dell’emancipazione della donna. Sembrerà quasi un’eresia. Come! Quella industria che strappa la donna al focolare domestico, che la fa concorrente al padre, al fratello, che sacrifica i suoi figli minorenni nelle fabbriche e nelle officine, questa si può chiamare la redentrice della donna? Eppure è così”.
La fabbrica strappa la donna dalla famiglia e dal patriarcato … benvenuta! Perché il femminismo ha un solo nemico: l’Antico Ordine … via figli, pentole e scopa … via preti, matrone e filantropi … meglio le pulegge e l’infernale tapis roulant che strappa le dita al telaio … dissolto quel passato si potrà lavorare al sol dell’avvenire … i maiali capitalisti vengono a fagiolo pur di liquidare l’Ancien Régime.
Chi voglia oggi comprendere gli sbilanciamenti della sinistra in favore del capitale, nella forma del capitale liquido finanziario, farà bene a rileggere questi passi.
Sì, signori, il passato è il nemico, il mondo che abbiamo perduto.
La Storia dell’Uomo che, forse, ammette la Volontà, ha il proprio Signore Terreno: la decadenza. L’entropia muove le cose. La danza di Siva, il Distruttore.
Per l’occhio di Siva ognuno è innocente.