Notte.
Correre al buio è rassicurante, non si vede niente.
E’ una settimana che corro qui, sempre alla stessa ora, sempre da sola.
Con la stessa tuta arancione, che si vede da lontano.
E non incontro mai nessuno. Solo qualche sparuta presenza umana, nei bordi del parco, là dove è più buio.
Sono tranquilla, rilassata, le cuffie alle orecchie, collegate da un telefono enorme e uno zainetto.
Una bella ragazza mora, atletica e sprezzante del pericolo.
Le solite sensazioni , il selciato duro come pietra, il respiro che esce a sbuffi e crea nuvolette mentre corro, e il percorso tra le macchie di luce e di ombra, il colore grigio che sfuma nel nero, fino a tornare lentamente grigio, quasi brillante, mentre torno sotto la luce. Mi piace tantissimo correre immersa nel buio, non vista da nessuno.
Una volta non era così, correvo sempre solo dove c’era la luce, e mi guardavo attorno nervosa.
Finché un giorno un uomo puzzolente di vino mi ha preso e trascinata nel buio biascicando parole che non capivo.
Non ho neanche urlato, non dopo il pugno che mi ha fracassato tre denti e uno zigomo.
Mi ricordo solo alcune impressioni, il peso sopra di me, la puzza di vino e quegli occhi aperti, da pazzo, che mi fissavano, mentre lui “faceva“.
Ricordo l’ospedale, le inutili domande della polizia, e la sensazione di non riuscire mai a pulirmi, per quante docce facessi.
Depressione, la perdita del lavoro, e la famiglia che mi guardava dimagrire sempre di più. mio padre non ce l’ha fatta, non sopportava vedere la sua “bambina ” sempre più sottile nascosta in un angolo buio.
Un infarto lo ha portato via tre anni fa, così di colpo. E’ stato come cambiare canale alla televisione, un attimo prima c’era e un attimo dopo non c’era più.
Sono rimasta sola, con scatoloni di roba da mettere via e, all’improvviso ho preso una decisione. Ho ripreso a mangiare e ad allenarmi, tutti i giorni, per lunghe, lunghissime ore.
Prima era difficile, vomitavo per la fatica e i muscoli, rannicchiati come me nell’ombra facevano male, Poi hanno cominciato a bruciare, ma era un bruciore caldo, come il fuoco, un bruciore che riscaldava. Alla fine hanno smesso di fare male, e ho ripreso a correre, tranquilla.
Un bel cambiamento, hanno detto tutti.
Oggi forse qualcosa cambierà davvero.
Eccoli.
Sono tre, sbucati dall’ombra e mi hanno circondato.
Sono grandi, grossi e vogliono prendermi.
Nelle mie cuffie spente e collegate ad un telefono finto sento il mio cuore che comincia a battere forte, tutto si fa luminoso, le mie pupille si dilatano al massimo.
Ma loro non si accorgono di niente, la ragazza questa volta è stranamente immobile e silenziosa.
“Tempo di lavorare!” come dice sempre il mio istruttore di Krav Maga ” non dare tempo al’avversario di pensare, un momento sei ferma e quello dopo agisci, senza nessun preavviso“.
E così faccio, alzo le braccia, i gomiti in avanti.
Due si stanno avvicinando , ai lati e uno rimane indietro. Non so perché, ma fanno sempre così, c’è chi agisce e chi rimane a guardare, ma poi ti scopa lo stesso.
Colpisco prima quello alla mia destra al naso, forte, con il gomito. Infilo la mano sinistra nella fondina da braccio e estraggo un coltello airborne, nero, con lama doppia da 190 mm. Il lato seghettato rivolto verso l’esterno, la presa salda con il pollice che spinge sull’elsa.
Taglio la faccia dell’uomo alla mia sinistra con un movimento circolare, la lama che sfrega sulle ossa e sui denti. Lascio andare a terra il coltello, di piatto.
Il sangue sprizza lontano , in gocce grosse e circolari.
Il terzo uomo rimane come impietrito, ma si scuote presto.
Lo zainetto, che porto a tracolla sul davanti è una specie di fodero. Al suo interno, sorretto da una bretella elastica, è contenuto un fucile a canne mozze.
Il Benelli di Mio padre, con intarsi in argento. Ho segato personalmente la canna e lucidato ed accorciato il calcio, adesso liscio e morbido come seta.
Punto al tizio con il naso che sanguina, il più grande, non si è buttato giù, ma è rimasto in piedi, con le mani sulla faccia.
Il suo inguine esplode come una bomba, devastato da una raffica di pallettoni da 9 mm.
Il terzo uomo si riprende del tutto e comincia a correre come un pazzo.
Non fa molta strada, pochi metri al massimo e lo colpisco esattamente al centro delle scapole, con la seconda scarica di pallettoni.
Uno è andato, ne rimangono due.
Apro il fucile, tolgo i bossoli e li metto in tasca, scottano, ma non importa, non devo lasciare tracce.
Con due dita prendo altri due bossoli, ricarico in fretta. I colpi di scorta sono cuciti due a due dentro lo zaino e mi sono allenata infinite volte a scaricare e ricaricare il fucile al buio.
Chiudo il fucile con uno scatto, e , senza pensarci su faccio saltare la testa ai due rimasti. Basta con le sofferenze inutili.
Appoggio lo zaino , mi sfilo la felpa arancione e lascio quella sotto, grigio scuro, e tiro il cappuccio sopra la parrucca nera.
Tutto dentro lo zaino, fucile, felpa, coltello e le inutili cuffiette: via di corsa verso la macchina.
Niente telecamere in giro, gli uomini fanno tutto il lavoro e mi assalgono sempre in zone dove non ce ne sono. Poveri stronzi.
Adesso a me la notte piace, non ho più paura..
Non c’è niente nel buio più pericoloso di me.
By Nuke di www.liberticida.altervista.org per gli amici di OraZero