
Tratto da strategic-culture.org scelto e tradotto da Gustavo Kulpe
Nel marzo 2016 Boris Johnson, all’epoca sindaco di Londra, ora primo ministro del Regno Unito, dichiarò che l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea era da considerarsi una “prospettiva win-win per tutti noi”. Nei successivi quattro anni si è dibattuto molto riguardo ai vantaggi o agli svantaggi della Brexit, da quando l’intenzione di uscire è diventata cosa nota, e sfortunatamente non tutte le discussioni sono state pacate o costruttive.
In effetti possiamo dire di aver assistito troppo spesso a dichiarazioni perentorie seguite da palesi contraddizioni e da prevaricazioni personali. Molte affermazioni e contro risposte hanno aumentato le tensioni tra sostenitori e oppositori della Brexit e, sfortunatamente, il risultato ottenuto sembra essere una polarizzazione perpetua della Gran Bretagna. Innumerevoli affermazioni di vari soggetti nel corso degli anni sembrano rilasciate apparentemente in maniera calcolata, allo scopo di dividere la popolazione piuttosto che per informare in modo costruttivo la gente sulle alternative potenzialmente vantaggiose o svantaggiose per loro e per tutto il paese. I principali responsabili del tenore acceso e contrastante del dibattito sono i politici di spicco, probabilmente convinti che l’appoggio o il contrasto [alla Brexit] avrebbe concesso loro maggiori probabilità di prevalere.
Un importante sostenitore della Brexit, un esponente di governo di nome Michael Gove, ha annunciato nell’aprile 2016 che “Il giorno dopo il nostro voto sull’uscita, manteniamo una posizione di forza e possiamo scegliere la strada che vogliamo”, ma nessuno lo ha indotto a fare quella promessa palesemente fuorviante, e ora è impegnato a pianificare un possibile esito negativo nei negoziati con l’Unione europea. Il fatto che nessuno sappia se ci sarà un “no-deal” è una prova sufficiente che la sua posizione fosse avventata, ed è comprensibile che ci sia una sostanziale disapprovazione per la sua continuazione a far parte del governo. Non è la prima volta che si è dimostrato tremendamente scorretto riguardo questioni importanti: una delle sue tesi più grottesche fu nel 2008 quando dichiarò “La liberazione dell’Iraq è stata in realtà una gran cosa: un vero successo della politica estera britannica. L’anno prossimo, mentre il mondo entrerà in recessione, l’Iraq probabilmente godrà di una crescita del PIL del 10%. Unica nel Medio Oriente arabo, ora è una democrazia perfettamente funzionante con una stampa libera, elezioni correttamente convocate e un sistema giudiziario indipendente”. Questa e altre dichiarazioni erronee hanno creato un senso di sfiducia diffusa nelle sue valutazioni o conclusioni.
Nel 2017 a Gove, nelle sue profezie sulla Brexit, si è affiancato Liam Fox, allora ministro del commercio internazionale, anche lui esplicito e in errore quando ha promesso alla nazione che “L’accordo di libero scambio che tratteremo con l’Unione europea dovrebbe essere uno dei più semplici della storia umana”. Per anni è stato evidente che l’UE non avrebbe accettato di essere calpestata da alcun governo britannico nella discussione di un accordo commerciale bilaterale, e questo è stato nuovamente sottolineato e ribadito il 3 febbraio dal capo negoziatore dell’UE, Michel Barnier, quando ha affermato che l’UE è pronta a offrire un “accordo commerciale altamente ambizioso come pilastro centrale di questa partnership”, comprese misure che prevedono zero tariffe e quote – ma solo se il Regno Unito accetta “garanzie specifiche e efficaci che assicurino condizioni di parità” per una concorrenza “aperta ed equa”.
L’approccio chiaro e mediatico di Barnier era in contrasto con l’affermazione simultanea ma purtroppo intransigente del Primo Ministro Johnson secondo cui “non vedo la necessità di legarci a un accordo con l’UE”. Il suo messaggio è che non ci deve essere flessibilità da parte del Regno Unito nei suoi negoziati in corso, costringendo l’UE a una posizione dalla quale sembrano esserci poche possibilità di “win-win”, come predetto con fiducia da Johnson durante la sua campagna per la Brexit. La Gran Bretagna può senza dubbio scegliere la strada che vuole, come indicato da Gove , ma sicuramente non ha “tutte le carte vincenti” che immagina nelle mani del governo di Londra.
Uno dei punti principali di Johnson nei negoziati sul commercio, che è di gran lunga il settore più importante dello scenario post Brexit, è che, come ha detto il 3 febbraio, “vogliamo un accordo di libero scambio, simile a quello del Canada, ma proprio nell’evento improbabile in cui non avremo successo, il nostro commercio dovrà basarsi sul nostro attuale Accordo di recesso con l’UE”. Ma non ha menzionato il fatto che l’accordo commerciale UE-Canada del 2016-17 ha richiesto sette anni di negoziazioni.
Inoltre, se non viene raggiunto un accordo sul commercio, si applicheranno le norme dell’Organizzazione mondiale del commercio e ciò implica l’imposizione automatica di dazi doganali, più ampiamente noti come “tariffe”, e la creazione di frontiere rigide con ispezioni e trattamento burocratico di tutte le merci che l’attraversano in entrambe le direzioni. Alcuni di noi hanno sperimentato tutto questo per molti anni e sanno bene che mentre tali procedure danno lavoro a molti ispettori, il tempo impiegato può essere considerevole e sensibile dal punto di vista economico.
La dott.ssa Anna Jerzewska è consulente in politica commerciale presso le Camere di commercio britanniche e l’International Trade Centre di Ginevra, e un anno fa la London School of Economics ha pubblicato alcuni dei suoi scritti su questo argomento tra i quali una delle osservazioni più significative è che “Secondo l’Organizzazione mondiale delle dogane, una transazione transfrontaliera media coinvolge fino a 30 settori diversi e circa 40 documenti con circa 200 elementi di dati, la maggior parte dei quali deve essere reimmessa in diversi sistemi “.
L’atteggiamento complessivo di Johnson sulla questione del commercio sta tutto nella risposta data a Laura Kuenssberg della BBC quando gli chiese se accettava il fatto che lasciare l’Unione europea senza un accordo commerciale globale avrebbe potuto avere un prezzo significativo in termini di posti di lavoro e sulle imprese. Ignorò il punto fondamentale della domanda e rispose semplicemente: “Abbiamo un accordo, un grande accordo, siamo fuori. Quando ascolto profezie di sventura già ampiamente ascoltate in precedenza, non vi do credito”. Sentimenti che, sebbene ovviamente appaiono accettabili per la maggior parte dei britannici che lo hanno eletto in modo così clamoroso lo scorso dicembre, difficilmente possono essere definiti una base per favorire l’ottimismo o che lasciano intravvedere una situazione “win-win”.
Di fondamentale importanza è stata la comunicazione da parte di Michel Barnier del fatto che tutti i beni importati dall’UE saranno tenuti a rispettare le norme europee in materia di salute e altri standard, il quale ha chiesto se il Regno Unito avrebbe “continuato ad aderire al modello sociale e normativo europeo in futuro o se ne sarebbe discostato?”, sottolineando che “la risposta del Regno Unito a questa domanda sarà fondamentale “. Sfortunatamente Johnson ha chiarito che la Gran Bretagna non seguirà tali statuti dell’UE.
I percorsi di Regno Unito e Europa sono divergenti al punto tale che Johnson è irremovibile sul fatto che “Non è necessario un accordo di libero scambio che implichi l’accettazione delle norme UE in materia di politica sulla concorrenza, sussidi, protezione sociale, ambiente o qualcosa di simile”.
È improbabile che la definizione di “protezione sociale” di Johnson includa norme e regolamenti sanitari relativi ai metodi di produzione (incluso, ad esempio, l’uso del lavoro pesante), come viene accettato dall’UE nel suo insieme, ma il danno più grande dell’intera faccenda potrebbe benissimo rivolgersi contro gli inglesi comuni, i lavoratori (e in particolare quelli che aspirano a entrare nel mondo del lavoro), che credono che lasciare l’UE sia l’inizio di una nuova era per il proprio paese. Credono in quello che il loro primo ministro ha detto loro: che ci sarà un “win-win” per loro e per l’Unione economica e sociale che hanno abbandonato in maniera polemica. Per il loro bene, dobbiamo sperare che sia così, ma i segnali indicano che è più probabile che ci sia un “lose-lose”.