Renato Dardozzi nacque a Parma il 5 aprile 1922. Conseguì la maturità classica presso il Liceo classico “Luigi Galvani” a Bologna. Conseguì poi la laurea in matematica e fisica presso l’Università degli Studi di Milano a cui ne seguì una seconda in ingegneria elettronica presso il Politecnico di Milano. In seguito, ottenne il diploma di specializzazione in telecomunicazioni presso l’Istituto elettrotecnico nazionale Galileo Ferraris. Terminati gli studi gli fu offerta una posizione di dirigente presso la Società di Telecomunicazioni SIP (attuale Telecom). Percorsi gli stadi della carriera, venne nominato direttore generale della Società e trasferito quindi alla Holding delle Telecomunicazioni (STET). In STET, oltre allo svolgimento dei suoi specifici compiti, gli fu assegnata la direzione e la docenza alla Scuola Superiore Guglielmo Reiss Romoli, collegata all’Università degli Studi dell’Aquila. A tale Istituto sono ammessi laureati in ingegneria destinati a posizioni di alta responsabilità nella Società stessa.

Conseguita la laurea presso la Pontificia Università Gregoriana, venne ordinato sacerdote nel dicembre 1973 nel convento di Farneta dell’Ordine certosino.[1] Nello stesso anno si congedò dalla STET con la quale continuò a mantenere rapporti di consulenza. Su invito della Segreteria di Stato iniziò nel 1974 la sua collaborazione con la Santa Sede, la quale lo introdusse nell’affare dello scandalo del Banco Ambrosiano. Svolse compiti specifici di controlli economico-finanziari, nella commissione internazionale mista creata dalla Segreteria di Stato per l’accertamento della verità. Nel 1985 venne chiamato a svolgere il compito di direttore aggiunto della cancelleria della Pontificia accademia delle scienze. Nel 1986 venne nominato direttore della cancelleria. Nel 1996 assunse l’incarico di cancelliere della Pontificia accademia delle scienze e, dopo la sua fondazione, anche quello di cancelliere della Pontificia accademia delle scienze sociali. Negli anni della sua attività in Accademia, vennero eletti numerosi accademici e si tennero numerosi convegni scientifici. Ebbe risonanza mondiale l’approfondimento dello studio della “Questione Galileiana” voluto dal Santo Padre. A seguito di ciò l’allora prefetto della Congregazione per la dottrina della fede Joseph Ratzinger accettò di approfondire la conoscenza del carteggio di Galileo Galilei ancora inesplorato. Il 30 giugno 1997 venne nominato egli stesso accademico della Pontificia accademia delle scienze. Nel 1998 si ritirò per raggiunti limiti d’età dai suoi incarichi di cancelliere. Il 3 giugno 2001 venne nominato consultore del Pontificio consiglio della giustizia e della pace e del Pontificio consiglio della pastorale per gli operatori sanitari.

Morì a Roma il 3 giugno 2003. Le esequie si tennero il 5 giugno alle ore 10.30 nella chiesa di Sant’Ignazio di Loyola in Campo Marzio.

Istituto per le opere di religione

“Banca vaticana”

L’Istituto per le opere di religione (acronimo: IOR), comunemente conosciuto come “Banca vaticana”, è un istituto pontificio di diritto privato, creato nel 1942 da papa Pio XII e con sede nella Città del Vaticano. È spesso erroneamente considerato la banca centrale della Santa Sede compito invece svolto dall’Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica (APSA).

L’attuale presidente è il francese Jean-Baptiste de Franssu, il direttore generale è Gian Franco Mammì.

Lo IOR è stato più volte coinvolto in scandali, finanziari e non, fra i quali spiccano “l’affare Sindona” e il crac del Banco Ambrosiano. A partire dagli anni 2010 l’Istituto ha avviato una serie di riforme con l’obiettivo di rendere le strutture e i regolamenti più trasparenti e porre fine a eventuali pratiche illecite.

LA FINANZA VATICANA – IlFattoQuotidiano.it

La politica non sia al servizio della finanza. È il monito del Vaticano contenuto nel documento Oeconomicae et pecuniariae quaestiones che critica duramente la speculazione finanziaria. Il testo, approvato da Papa Francesco, offre alcune “considerazioni per un discernimento etico circa alcuni aspetti dell’attuale sistema economico-finanziario”, come recita il sottotitolo, ed è stato elaborato dalla Congregazione per la dottrina della fede e dal Dicastero per il servizio dello sviluppo umano integrale. Lo stesso prefetto dell’ex Sant’Ufficio, monsignor Luis Francisco Ladaria Ferrer, ha sottolineato come questo documento rappresenti una sorta di novità nel magistero del suo dicastero. “È vero – ha ammesso l’arcivescovo spagnolo – che sulla morale della vita e della sessualità si è scritto di più, rientrava di più nell’attenzione della Chiesa”.

Il Vaticano denuncia che “di fronte al crescente e pervasivo potere di importanti agenti e grandi networks economico-finanziari, coloro che sarebbero deputati all’esercizio del potere politico, spesso disorientati e resi impotenti dalla sovranazionalità di quegli agenti e dalla volatilità dei capitali da questi gestiti, faticano nel rispondere alla loro originaria vocazione di servitori del bene comune, e accade anche che si trasformino in soggetti ancillari di interessi estranei a quel bene”. D’altro canto la Santa Sede ricorda “l’insostituibile funzione sociale del credito”, sottolineando che sono da favorire “realtà quali il credito cooperativo, il microcredito, così come il credito pubblico a servizio delle famiglie, delle imprese, delle comunità locali e il credito di aiuto ai Paesi in via di sviluppo”.

Per il Vaticano sono i derivati che “hanno favorito il sorgere di bolle speculative, le quali sono state importanti concause della recente crisi finanziaria”. Nel documento essi vengono definiti dei veri e propri “ordigni ad orologeria pronti a deflagrare prima o poi la loro inattendibilità economica e ad intossicare la sanità dei mercati”. Sotto accusa anche i “credit default swap” (Cds), il cui mercato, “alla vigilia della crisi finanziaria del 2007, era così imponente da rappresentare all’incirca l’equivalente dell’intero Pil mondiale”. Per la Santa Sede, infatti, “il diffondersi senza adeguati limiti di tale tipo di contratti ha favorito il crescere di una finanza dell’azzardo e della scommessa sul fallimento altrui, che rappresenta una fattispecie inaccettabile dal punto di vista etico”, poiché “chi agisce lo fa in vista di una sorta di cannibalismo economico” e “finisce per minare quella necessaria fiducia di base senza cui il circuito economico finirebbe per bloccarsi. Quando da simili scommesse possono derivare ingenti danni per interi Paesi e milioni di famiglie, si è di fronte ad azioni estremamente immorali ed appare quindi opportuno estendere i divieti, già presenti in alcuni Paesi, per tale tipologia di operatività, sanzionando con la massima severità tali infrazioni”.

Non è la prima volta in tempi recenti che la Santa Sede si esprime con estrema chiarezza sulle questioni del mondo finanziario. Era avvenuto nel 2009, durante la prolungata crisi economica internazionale, con l’enciclica di Benedetto XVI Caritas in veritate. Ma è certamente una novità da non sottovalutare che, quasi un decennio dopo quel testo di Ratzinger, due dicasteri vaticani abbiano voluto richiamare la dimensione etica nel panorama della finanza internazionale. “La recente crisi finanziaria – si legge nel testo – poteva essere l’occasione per sviluppare una nuova economia più attenta ai principi etici e per una nuova regolamentazione dell’attività finanziaria, neutralizzandone gli aspetti predatori e speculativi e valorizzandone il servizio all’economia reale”. La bocciatura del Vaticano è netta: “Sebbene siano stati intrapresi molti sforzi positivi, a vari livelli, che vanno riconosciuti e apprezzati, non c’è stata però una reazione che abbia portato a ripensare quei criteri obsoleti che continuano a governare il mondo. Anzi, pare talvolta ritornare in auge un egoismo miope e limitato al corto termine che, prescindendo dal bene comune, esclude dai suoi orizzonti la preoccupazione non solo di creare ma anche di diffondere ricchezza e di eliminare le disuguaglianze, oggi così pronunciate”.

Quello pubblicato dal Vaticano non è per nulla un banale testo catechetico, lontano dalle questioni concrete della macro e anche della micro economia, bensì un documento elaborato grazie al contributo di professionisti dell’alta finanza che si sono messi in dialogo con i due dicasteri della Santa Sede che ne hanno coordinato la redazione. Tra le numerose questioni affrontate, molte delle quali abbastanza tecniche, non mancano la necessità della certificazione pubblica per evitare un mercato finanziario intossicato, l’opportunità di una “biodiversità” economica e finanziaria, la necessità di un coordinamento fra le varie autorità nazionali di regolazione dei mercati, l’importanza di consulenti finanziari che si comportino in modo etico, la responsabilità sociale dell’impresa, lo scandalo dei “grandi guadagni a manager e azionisti” (shareholders) a scapito degli “stakeholders”, la necessità che la “socializzazione delle perdite” delle banche “ricada soprattutto su coloro che ne sono stati

effettivamente responsabili”, la critica ai “titoli di credito fortemente rischiosi” come i subprime all’origine della crisi del 2007-2008, la critica allo “shadow banking system” e alla finanza creativa.

Per il Vaticano, inoltre, “il benessere va perciò valutato con criteri ben più ampi della produzione interna lorda di un Paese (pil), tenendo invece conto anche di altri parametri, quali ad esempio la sicurezza, la salute, la crescita del ‘capitale umano’, la qualità della vita sociale e del lavoro. E il profitto va sempre perseguito ma mai ‘ad ogni costo’, né come referente totalizzante dell’azione economica”. Inoltre, il debito pubblico “rappresenta oggi uno dei maggiori ostacoli al buon funzionamento ed alla crescita delle varie economie nazionali”. Pertanto, “di fronte a tutto ciò, da una parte, i singoli Stati sono chiamati a correre ai ripari con adeguate gestioni del sistema pubblico mediante sagge riforme strutturali, assennate ripartizioni delle spese ed oculati investimenti; dall’altra parte, a livello internazionale, pur mettendo ogni Paese di fronte alle sue ineludibili responsabilità, occorre anche consentire e favorire delle ragionevoli vie d’uscita dalle spirali del debito, non mettendo sulle spalle degli Stati, e quindi sulle spalle dei loro concittadini, vale a dire di milioni di famiglie, degli oneri che di fatto risultano insostenibili”.

L’EVASIONE FISCALE DELLA CHIESA VATICANA – ilmessaggero.it

La Chiesa e l’Ici, un’evasione fiscale di 5 miliardi: in mano al Vaticano il 20% degli immobili in Italia

Per dare un’idea di un impero sul quale non tramonta mai il sole, la Chiesa sarebbe proprietaria, nei cinque continenti del pianeta, di circa un milione di immobili per un valore complessivo, comprese le rendite, di 2 mila miliardi. Ma quello che più colpisce, soprattutto se rapportato alla questione tasse mai risolta e risollevata in queste ore dall’Europa, è che il 20% del patrimonio immobiliare italiano sarebbe in mano al Vaticano. Su questa stima convergono tutte le maggiori società del settore che attribuiscono agli eredi di Pietro la titolarità di 120 mila immobili. Nel mazzo figurerebbero 9 mila scuole, 26 mila tra chiese, oratori, conventi, campi sportivi e negozi e 5 mila tra cliniche, ospedali e strutture sanitarie e di vario genere.

Corte di giustizia europea: «Italia recuperi Ici non versata dalla Chiesa»

Più difficile capire quanti siano gli hotel, i residence e le strutture ricettive in genere, perché per la maggior parte sono di proprietà di ordini di frati e suore, e non delle diocesi. Il sito Ospitalità religiosa ha censito 4.387 strutture per oltre 120 mila posti letto. Solo a Roma, dove ovviamente c’è il cuore pulsante delle attività, sono 2 mila gli enti religiosi e risultano proprietari di circa 20 mila terreni e fabbricati, suddivisi tra città e provincia. Difficile anche stabilire con precisione quanti non abbiano fini di lucro: sicuramente le chiese o gli stabili che sono adibiti ad attività caritative. Per il resto il confine è sempre stato labile, anche se oggi la Cei, nel commentare la notizia arrivata da Strasburgo, ha ribadito che le attività remunerative devono pagare le tasse sempre, «senza eccezione e senza sconti».

A conti fatti, in Italia (dove Lombardia e Veneto contribuiscono più che altre Regioni), si parla comunque di un patrimonio stimabile intorno a 5 miliardi di euro. Ma in molti ipotizzano che il valore sia molto più robusto. La difficoltà dei calcoli è anche legata al fatto che il patrimonio, oltre ad essere parcellizzato, è in continua evoluzione con acquisti e vendite che, anche se non ai ritmi del mercato immobiliare complessivo, comunque si verificano. Se non c’è un database ufficiale che censisca immobili di proprietà e funzioni differenti (a volte non esiste una banca dati neanche a livello di singole diocesi), tanto meno c’è una stima ufficiale sul valore.

LA GESTIONE

Ad ogni modo per gestire questa enorme ricchezza, alla quale ha dato un impulso fondamentale il Giubileo del 2000, la Chiesa si affida a tre enti. Il più importante è l’Apsa (Amministrazione patrimonio sede apostolica), che gestisce appartamenti e terreni. Poi c’è Propaganda Fide, che opera nella Capitale amministrando residenze in sessanta palazzi in alcuni dei luoghi più prestigiosi di Roma. Infine c’è il Governatorato della Città del Vaticano. Ma in questo caso non ci sono discussioni in quanto gestisce immobili fuori dalla giurisdizione italiana e, dunque, al riparo da qualsiasi pretesa impositiva da parte dell’Italia. Chi invece le tasse dovrebbe regolarmente pagarle all’Agenzia delle Entrate e invece in molti casi non lo fa sono le circa 300 strutture ricettive di proprietà della Chiesa. «Se un convento religioso lavora come un albergo, paghi l’Imu» tuonò a questo proposito Papa Francesco nel 2015 suscitando enorme clamore e aprendo uno squarcio sulla reticenza di alcune strutture.

Un andazzo che ha prodotto un’evasione fiscale da 5 miliardi di euro. Come recuperare questi soldi? Spetterà ora alla Commissione europea, e in particolare alla commissaria alla Concorrenza, Margrethe Vestager valutare, insieme al governo Conte, le modalità di recupero delle imposte non riscosse dal 2006, anno in cui è entrata in vigore l’esenzione anche per le attività di natura commerciale, fino al 2012, anno di entrata in vigore dell’Imu. Lo Stato dovrà quindi attivarsi con i Comuni per stabilire l’entità degli importi.

QUANTO PAGHIAMO PER LA CHIESA – espresso.repubblica.it

Quanto paghiamo per la Chiesa

Le esenzioni fiscali. L’otto per mille. I finanziamenti alle scuole. Perfino i depuratori del papa. Ecco, voce per voce, quali sarebbero i tagli ‘sacrosanti’

Durante il week end la pagina Facebook ‘Vaticano pagaci tu la manovra fiscale’

https://www.facebook.com/VATICANOPAGATU

ha superato di slancio le centodiecimila adesioni. Un “partito” che tuttavia non trova sponde o quasi nella politica: di tagliare i privilegi della Chiesa, ad esempio, non c’è traccia nella contromanovra che il Pd sta studiando in questi giorni. «Quello dei soldi Oltre Tevere è un tabù che nessuno ha intenzione di affrontare», scuote la testa Mario Staderini, segretario dei Radicali, che ha per primo lanciato la proposta di eliminare le esenzioni fiscali di cui godono gli enti ecclesiastici. «Si potrebbero recuperare 3 miliardi di euro all’anno senza neppure rivedere il Concordato», sostiene.

Ha ragione? Quantificare con precisione il “costo” della Chiesa Cattolica per lo Stato italiano è un’operazione quasi impossibile, che in parte si basa su dati certi e in altri casi solo su stime.

Se è infatti relativamente facile stabilire quali sono le spese principali a carico dello Stato italiano, trattandosi di fondi che restano nel bilancio, molto più complesso è stabilire quali sono i mancati introiti derivanti dalle agevolazioni fiscali cui hanno diritto gli enti ecclesiastici.

Per fare un po’ di ordine è meglio dividere i capitoli.

Iniziamo analizzando le spese principali che lo Stato si accolla per gli enti ecclesiastici. In questa categoria si possono far rientrare i prelievi dell’Irpef diretti alla Conferenza Episcopale Italiana (l’otto per mille), i fondi per gli stipendi dei professori di religione cattolica nelle scuole, gli stipendi dei cappellani che svolgono funzioni per lo Stato italiano, i finanziamenti alle scuole paritarie e alle università private che in buona parte ruotano attorno alla Chiesa. Un pacchetto da circa 2,5-3 miliardi di euro l’anno, solo per lo Stato centrale. Altri capitoli di spesa, come la sanità, ricadono infatti nei bilanci regionali e non rientrano in questi conteggi.

La prima voce di spesa per lo Stato, e una delle più contestate, è l’otto per mille, ovvero la percentuale Irpef che il cittadino può destinare ad un credo religioso o lasciare allo Stato Italiano. Solo per la Chiesa Cattolica l’otto per mille ha fruttato nel 2011 la cifra record di un miliardo e 118 milioni di euro , circa l’85% dell’intera torta.

A essere contestati nell’otto per mille sono almeno tre aspetti: il metodo di ripartizione, la “mancata concorrenza” e l’ammontare dell’aliquota Irpef. A differenza delle altre tasse infatti, l’otto per mille di ogni contribuente non viene destinato al credo da lui scelto: la firma di ogni cittadino vale come un voto e influisce sulla ripartizione complessiva dei fondi. In questo modo, anche se non si firma, la destinazione dei fondi viene stabilita solo dai “votanti”.

Questo meccanismo finisce per avvantaggiare la Chiesa Cattolica che, conquistando la maggioranza delle firme, riceve una grossa fetta anche dei finanziamenti senza destinazione. Il sistema è stato molto contestato dai Radicali e da associazioni come lo Uaar, che segnalano il completo monopolio cattolico per quanto riguarda gli spot pubblicitari: le confessioni più piccole non possono permettersi le campagne milionarie, mentre lo Stato non investe un centesimo sull’argomento, lasciando nei fatti il campo libero alla Chiesa Cattolica.

Un aspetto sottovalutato dell’otto per mille è però l’ammontare dell’aliquota di prelievo, che secondo la legge può essere ridefinita da una apposita commissione ogni tre anni. L’articolo 49 della legge 222/85, che ha istituto l’otto per mille, prevede che “Al termine di ogni triennio successivo al 1989, un’apposita commissione paritetica, nominata dall’autorità governativa e dalla Conferenza episcopale italiana, procede alla revisione dell’importo deducibile di cui all’articolo 46 e alla valutazione del gettito della quota IRPEF di cui all’articolo 47, al fine di predisporre eventuali modifiche”.

Si tratta di un sistema di verifica pensato al momento del passaggio dall’assegno di Congrua (con cui lo Stato pagava fino agli anni ‘80 lo stipendio dei preti) al nuovo regime, che permette di rivedere i prelievi se questi si rivelano troppo bassi o troppo alti. “Abbiamo chiesto di accedere agli atti della commissione incaricata di valutare l’aliquota – spiega Mario Staderini – ma sulle relazioni è stato apposto il segreto di Stato, e anche il Tar del Lazio ha confermato che quei documenti devono restare riservati”.

Se le casse dello Stato piangono, il gettito dell’otto per mille per la Chiesa è invece cresciuto di cinque volte in venti anni, passando dai 210 milioni dei primi anni novanta al miliardo e 100 di oggi . Aumentando il gettito è cambiata radicalmente anche la destinazione di questi capitali: oggi un terzo viene usato per lo stipendio dei religiosi, circa un quinto per interventi caritativi, e poco meno della metà per “esigenze di culto”, una voce che al suo interno prevede anche la costruzione di nuove chiese (125 milioni di euro solo nel 2011).

L’aumento del gettito dell’otto per mille degli ultimi anni è stato così importante che ha permesso alla Chiesa di realizzare una serie di accantonamenti (55 milioni nel 2011, 30 milioni nel 2010): un piccolo tesoretto per futuri usi insomma.

La seconda voce di spesa a vantaggio della Chiesa Cattolica sono gli stipendi degli insegnanti di religione delle scuole, che sono più di 25 mila (circa la metà di ruolo) e costano una cifra superiore agli 800 milioni di euro l’anno.

La posizione della Cei sull’argomento, riportata in varie comunicazioni ogni volta che la questione viene rilanciata, è che questi stipendi non vanno alla Chiesa, ma agli insegnanti che per oltre l’80 per cento sono laici (l’87 per cento nel 2009/2010

In realtà, il controllo dei vescovi su questa voce di spesa non è da sottovalutare, visto che per ottenere l’idoneità all’insegnamento serve proprio un nulla osta del religioso. Il Canone 805 del Codice canonico prevede infatti che “È diritto dell’Ordinario del luogo per la propria diocesi di nominare o di approvare gli insegnanti di religione, e parimenti, se lo richiedano motivi di religione o di costumi, di rimuoverli oppure di esigere che siano rimossi”.

In altre parole, gli insegnanti di religione sono gli unici a non essere scelti sulla base di graduatorie di Stato, ma sono di fatto assunti in ogni diocesi dal vescovo locale. Assunti dalla Chiesa ma pagati dallo Stato, insomma. Inoltre, e i casi di cronaca lo hanno confermato, chi divorzia può essere licenziato da un anno all’altro.

Oltre agli stipendi degli insegnanti, lo Stato si accolla direttamente anche una parte degli stipendi dei religiosi, quando questo svolgono compiti come il cappellano militare, nelle carceri o il già citato insegnante di scuola. Secondo la Cei le “remunerazioni proprie dei sacerdoti” valgono 112 milioni di euro l’anno. Una cifra che non si può però sommare alle altre voci, poiché in parte già calcolata tra gli stipendi degli insegnanti (che nell’11% dei casi sono sacerdoti o religiosi).

Il capitolo dell’insegnamento apre un altro frangente di spesa per lo Stato, ovvero il finanziamento alle scuole paritarie (private). Queste strutture sono in buona parte gestite da enti ecclesiastici, anche se esistono non pochi istituti laici nel nostro paese.

Nell’ultima finanziaria la spesa prevista per il finanziamento alle paritarie ammonta complessivamente a poco meno di 500 milioni di euro, in calo rispetto all’anno precedente ma rimpinguata dopo una prima pesante sforbiciata. Nonostante le polemiche legate al finanziamento di queste strutture (che l’articolo 33 della Costituzione vuole “senza oneri per lo Stato”), uno studio dell’associazione dei genitori delle scuole cattoliche, ripreso anche dal ministro Gelmini, sostiene come queste scuole consentano un risparmio per lo Stato quantificato in circa sei miliardi di euro. La complessità della materia e le sue tante sfaccettature non possono comunque essere esaurite in poche righe.

Alle fonti di finanziamento citate si devono poi aggiungere altre voci, non sempre facilmente rintracciabili nei documenti ufficiali. Un capitolo tutto suo lo merita ad esempio la fornitura dell’acqua alla Città del Vaticano, interamente a carico dello Stato italiano. L’ articolo 6 dei patti Lateranensi del 1929 recita infatti che “L’Italia provvederà, a mezzo degli accordi occorrenti con gli enti interessati, che alla Città del Vaticano sia assicurata un’adeguata dotazione di acque in proprietà”.

Su queste due righe sono state avanzate diverse interpretazioni, con strascichi che arrivano fino ai giorni nostri. Nonostante l’opposizione dei radicali, secondo cui l’adeguata dotazione di acqua significa che bisogna far arrivare i tubi al Vaticano e nient’altro, l’interpretazione vincente è che i costi dell’acqua siano a carico dello Stato, ma un discorso diverso vale per la depurazione e la gestione degli scarichi.

La questione è esplosa nel 1998, quando la romana Acea si è quotata in borsa ed ha chiesto al Vaticano di pagare una bolletta da 25 milioni di euro che, dopo diverse peripezie, è stata invece pagata dallo Stato.

Proprio lo Stato italiano dal 2005 versa anche 4 milioni di euro l’anno all’Acea per la depurazione, da sommarsi al costo dell’acqua stessa. Il costo totale della fornitura non è però esente da equivoci e la sua cifra complessiva tra depurazione, costo dell’acqua e dello smaltimento è finita di recente al centro di una polemica alimentata da una “gola profonda” del Pd l che sostiene, senza però presentare la documentazione, che questi costi ammontino a circa 50 milioni di euro l’anno.

Dopo aver passato in rassegna le voci di spesa dello Stato per il finanziamento della Chiesa Cattolica e delle sue attività, bisogna andare al capitolo dei mancati introiti, legati ai regimi fiscali privilegiati a cui hanno diritto alcuni stabili e fabbricati. Come affermato in precedenza, tanto le spese sono note ed evidenti nel bilancio dello Stato, quanto l’entità delle detrazioni è frutto di stime molto meno certe. Per chiarezza è quindi meglio dividere ogni voce e chiarire i riferimenti normativi, le critiche e il loro presunto costo per le casse statali.

Le due voci principali di detrazione fiscale a cui ha diritto la Chiesa, non in forma esclusiva, sono l’esenzione dall’Ici e la riduzione del 50 per cento dell’Ires, l’imposta sul reddito delle persone giuridiche (le società). Questi privilegi sono anche finiti nel mirino della Commissione Europea che, dopo una denuncia dei deputati radicali, ha aperto nei confronti dell’Italia un procedimento per verificare se si tratta di aiuto di Stato o meno e il cui esito finale è atteso entro il 2012.

L’abbattimento del 50 per cento dell’Ires si applica agli enti di assistenza sociale e con fini di beneficenza ed istruzione, anche quando questi svolgono in parte attività commerciale: in questo caso però la normativa vuole che vengano distinte le fonti di reddito e sulla parte commerciale venga pagata l’intera tassa. Trattandosi inoltre di un’agevolazione nata negli anni ’50 (e poi rivista varie volte), la Commissione europea ha deciso di farla rientrare tra gli aiuti di Stato esistenti, che possono essere annullati ma per cui non può esser richiesto il rimborso degli “arretrati”.

Per quanto riguarda l’Ici (l’imposta comunale sugli immobili) la questione è più complessa e prevede diversi livelli. Innanzitutto la legge prevede l’esenzione totale per i luoghi di culto, ma la parte più contestata riguarda l’esenzione per le attività commerciali svolte nei locali di enti non commerciali (come quelli religiosi). Un’interpretazione della Cassazione del 2004 (la legge risale al 1992), giudicata troppo restrittiva dagli organi della Cei, ha stabilito come potessero accedere all’esenzione solo le strutture che non svolgessero alcuna attività commerciale: in poche parole l’Ici doveva essere corrisposta da tutti gli istituti che prevedevano un pagamento per le loro prestazioni, fossero esse mense per i poveri,alberghi per pellegrini o cliniche private. L’anno successivo, una legge del Governo Berlusconi ha cambiato le carte in tavola, stabilendo che l’esenzione Ici valesse anche in caso di attività commerciali: un regalo alla Chiesa che ha fatto scattare subito la denuncia alla Commissione europea per i suoi effetti sulla concorrenza.

A mettere una pezza alla situazione ci ha pensato il governo Prodi nel 2006, con l’introduzione di una nuova interpretazione della legge che prevede l’esenzione dell’Ici solo per chi svolge attività “non esclusivamente commerciale”. Dalla diversa interpretazione di queste tre parole nascono buona parte degli attuali contenziosi tra chi sostiene che basti una cappella in un albergo per non pagare l’Ici e la Cei, che sostiene invece la bontà della norma e definisce “mistificazioni” gli articoli che affermano il contrario. Tanto per far capire quanto l’argomento sia caldo, un editoriale di Avvenire (il quotidiano della Cei) è tornato sull’argomento il 18 agosto scorso.

Delle detrazioni dalle tasse italiane usufruiscono poi tutti gli stabili di Città del Vaticano che godono dell’extra-territorialità e previsti dal Concordato. La somma di queste esenzioni, secondo una stima fornita dall’Anci e segnalata nel libro “La Questua” di Curzio Maltese, valeva nel 2007 tra gli 1,5 e i 2 miliardi di euro l’anno. Da quanto è emerso invece in un’interrogazione fatta dai radicali al Comune di Roma pochi anni fa, il costo dell’esenzione Ici per la sola capitale è di circa 25 milioni di euro l’anno.

Altra tassa risparmiate alla Chiesa, o sarebbe meglio dire ai suoi “dipendenti”, è l’esenzione dell’Irpef per tutti i lavoratori della Santa Sede e della Città del Vaticano: almeno duemila persone tra giornali, radio, tribunali ecclesiastici, segreterie e congregazioni. Con il Concordato del 1984 è stato inoltre stabilita la possibilità di detrarre dalla dichiarazione dei redditi le donazioni fino alle vecchie due milioni di lire (poco meno di mille euro).

Il conto complessivo delle detrazioni, almeno sulla base delle stime, supera quindi agilmente i 3 miliardi di euro. Ma la politica non ci sente: «Togliere i fondi alla Chiesa italiana significa togliere il pane agli affamati», ha commentato Rocco Buttiglione dell’Udc. Compatto nella difesa dei privilegi ecclesiatici il Pdl. Poche le voci dissonanti nel Pd, partito la cui presideente Rosi Bindi ha chiuso la porta a ogni ipotesi di Pd di tassazione degli immobili del Vaticano, perché«la Chiesa è una grande ricchezza per la società italiana e le opere di carità della chiesa sono ancora più importanti per la crisi economica che sta mordendo le famiglie». Amen.

VATICANO SpA

Vaticano S.p.A. Da un archivio segreto la verità sugli scandali finanziari e politici della Chiesa è un saggio – inchiesta giornalistica di Gianluigi Nuzzi

già collaboratore del Corriere della Sera e Il Giornale, sugli scandali finanziari e politici degli anni novanta dell’Istituto per le Opere di Religione e sui suoi rapporti con la mafia.

Il libro è stato il bestseller del 2009 tradotto in 14 lingue. L’autore ha affermato di avere devoluto il 50% dei diritti d’autore in beneficenza.