Una spiegazione che può essere un valido complemento all’ipotesi della mente bicamerale di Julian Jaynes fa riferimento ad un’affascinante e controversa teoria scientifica di cui abbiamo ampiamente dibattuto in un altro nostro precedente articolo1. Si tratta della rivoluzionaria ipotesi elaborata dallo scienziato britannico Rupert Sheldrake2 in merito al concetto di campo morfogenetico. Avevamo scritto che secondo Sheldrake tra i tipi di campi di forza esistenti in natura in grado di interagire con la materia (come lo sono, ad esempio, il campo gravitazionale ed il campo elettromagnetico), bisognerebbe annoverare anche quelli che lui chiama campi morfogenetici. Come ci si ricorderà Sheldrake, che è un biologo, partì dalla descrizione delle modalità in cui si formano le catene polipeptidiche3 per esplicitare il ruolo dei campi morfici nello sviluppo e nel mantenimento della forma di sistemi dai più alti livelli di complessità. Avendo per lo più noi comuni mortali – e questo principalmente a partire dall’Età dei Lumi – un’impostazione di base scientista e materialista, siamo portati a pensare che un sistema, per quanto complesso, non sia che la semplice risultante delle singole componenti di cui è composto. Questo approccio positivista non è però soddisfacente quando si tratta di spiegare il perché si formino in natura sistemi così sofisticati quali sono appunto le catene polipeptidiche. Le sole informazioni genetiche contenute nel nostro DNA non bastano per spiegare tale livello di complessità. Ciò portò Sheldrake ad ipotizzare che dovesse necessariamente intervenire un fattore di tipo esogeno: i campi morfici.

Sheldrake stesso, per meglio esprimere questo concetto, ricorse a una elaborata analogia. Così come nella costruzione di una casa i mattoni e tutti gli altri materiali usati dagli operai determinano solo parzialmente quale sarà la forma definitiva dell’edificio, giacché ciò che conta è essenzialmente il progetto dell’architetto che i costruttori sono tenuti a seguire, similmente le informazioni contenute nel DNA ci danno un’indicazione precisa di quali e quanti materiali sarà composto un organismo, ma non necessariamente ci dicono tutto sulla sua forma definitiva. Ed è qui che entra in gioco il concetto di campo morfico: quest’ultimo equivarrebbe in ultima istanza al progetto secondo cui una casa viene edificata, mentre il DNA costituirebbe l’insieme dei mattoni e di tutti gli altri materiali effettivamente impiegati nel processo di costruzione. Si rammenti infatti che solo l’1,5% del nostro genoma contiene le informazioni necessarie per la codifica delle proteine4 le quali, semplificando, possono essere considerate i mattoncini costituenti il nostro organismo. La parte restante, cioè addirittura il 98,5%, viene sprezzantemente chiamato dagli scienziati DNA spazzatura, in quanto ancora oggi si ignora a cosa serva effettivamente, dal momento che non porta con sé le informazioni necessarie per la codifica delle proteine5.

La vera peculiarità insita nel concetto di campo morfogenetico postulato da Sheldrake risiederebbe nel fatto che esso comporta un trasferimento non di energia sotto forma di onde elettromagnetiche, bensì di informazioni attraverso un processo di risonanza non-locale a partire da un campo di informazione presente in una dimensione a-temporale e a-spaziale. Si tratterebbe quindi di un campo che dà forma agli organismi e che non sussiste né nel tempo né nello spazio ma in un eterno presente dove ciò che conta è solo la forma e le sue capacità di plasmare gli organismi a sua immagine e somiglianza. Trattandosi essenzialmente di un contenitore di informazione e di memoria, un campo morfogenetico non sarebbe dissimile da un comune cloud internet, perché consisterebbe in uno spazio di archiviazione (in questo caso collettivo e non personale come di solito sono i cloud internet che utilizziamo) che risulta essere accessibile in qualsiasi momento ed in ogni luogo da parte dei membri del gruppo biologico a cui questo campo fa specificatamente riferimento. In questo speciale spazio di archiviazione, che si trasforma in definitiva in una sorta di memoria collettiva della specie, col passare del tempo si depositano tutte le informazioni relative alle proprietà comportamentali, psicologiche o addirittura organiche del suddetto gruppo biologico.

La teoria di Sheldrake prosegue enunciando che un campo morfogenetico presuppone un progressivo accumulo di informazioni e conoscenze che lega tra di loro le differenti generazioni dei membri del gruppo biologico appartenente a quello specifico campo morfogenetico. In altre parole, succede che un preesistente campo morfogenetico influenza i membri attuali della specie in questione; ma a loro volta questi ultimi, attraverso il proprio comportamento e le proprie esperienze, sono in grado di contribuire ad un ulteriore sviluppo di questo loro campo morfogenetico di riferimento. Così le generazioni future verranno influenzate da un campo che potrebbe differire leggermente da quello oggi effettivamente in essere, dovendosi presumere che nel frattempo potrebbero avvenire delle pur leggere modificazioni dovute proprio all’attuale generazione. Si tratterrebbe pertanto di una influenza di tipo cumulativo, che aumenta con l’aumentare, nel corso del tempo, del numero totale dei membri della specie in questione.

Inoltre Sheldrake estendeva il concetto di campo morfico anche agli oggetti inanimati e non solo agli organismi viventi. A tal riguardo faceva l’esempio dei cristalli propri di quelle sostanze che sono state solo di recente sintetizzate. È noto quanto sia difficile ottenere dei cristalli di un nuovo composto la prima volta che ci si prova. Ad esempio lo xilitolo, succedaneo dello zucchero scoperto alla fine del XIX secolo ed oggi largamente impiegato nell’industria dolciaria, fu a lungo ritenuto un liquido perché inizialmente risultava impossibile cristallizzarlo. Inspiegabilmente, a partire dagli anni ’20 esso iniziò a cristallizzare; e fu così in tutto il mondo. Sheldrake ritiene che questo sia dovuto alla mancanza di un preesistente campo morfogenetico di riferimento. Una volta però che col passare del tempo quest’ultimo si fosse debitamente rafforzato, ecco che anche il relativo processo di cristallizzazione tenderebbe a rafforzarsi, sino ad assumere i contorni di una legge fisica apparentemente immutabile.

A questo punto, noi stessi possiamo spingerci a formulare un’ipotesi altamente affascinante, per quanto decisamente azzardata. E se la stessa coscienza umana evolvesse nella stessa maniera in cui Sheldrake ci dice che si evolve un campo morfogenetico? O per meglio dire, se la coscienza umana fosse essa stessa una sorta di campo morfogenetico consistente in un campo di informazioni e conoscenze presente in una dimensione a-temporale e a-spaziale? In questo modo, essa pure sarebbe un processo di tipo cumulativo.

Ognuno di noi verrebbe intimamente influenzato, pur non avendo la possibilità di rendersene conto, da una coscienza collettiva che si sarebbe formata nel corso dell’intera esistenza del genere umano. Ognuno di noi, seppur in misura minima ed in maniera del tutto inconsapevole, sarebbe in grado di attingere ad un campo di informazioni al cui sviluppo hanno contribuito i nostri stessi antenati. E ognuno di noi, anche senza averne una chiara volontà, attraverso le proprie vicissitudini personali, attraverso le scelte che compiamo, attraverso ciò che esperimentiamo, attraverso anche le nostre gioie ed i nostri dolori, finirebbe coll’essere in grado di contribuire allo sviluppo di questa stessa coscienza collettiva propria del genere umano. Tutto questo avverrebbe in maniera tale che nel futuro anche i nostri discendenti, collegandosi a questa medesima coscienza di gruppo, avranno la possibilità di attingere ad un nucleo di conoscenze e di informazioni al cui sviluppo noi stessi abbiamo potuto concorrere.

Questa è ovviamente una nostra ipotesi personale che ci sentiamo di sviluppare partendo dal pensiero di Sheldrake. Ovviamente il lettore è libero di dissentire e di ritenere la nostra ipotesi una baggianata. Non ci offenderemo per questo. D’altronde, non esiste tuttora uniformità di vedute circa le teorie elaborate da Sheldrake. A maggior ragione, si può e si deve dubitare di una tesi strampalata che da queste vuole prendere spunto. Si tratta in definitiva di un nostro trastullo personale, un’ipotesi di lavoro che ci è piaciuto formulare al fine di intavolare una discussione che si spera la più proficua possibile tra i nostri lettori. Tuttavia, ci sembra che questa spiegazione relativa allo sviluppo della coscienza umana possa adeguatamente integrare quella comunque ben presentata e argomentata della mente bicamerale, così come esplicitata da Julian Jaynes.

Questa ha – almeno ai nostri occhi -il difetto di ridurre l’intera questione dell’evoluzione della coscienza ad un fatto puramente biologico, e cioè al distacco a livello per così dire operativo dell’emisfero destro del nostro cervello da quello sinistro nella mente bicamerale dei popoli primitivi. Il suo approccio, in altre parole, ci appare proprio come quello tipico della scienza positivista moderna che considera il tutto come la semplice risultante delle sue componenti materiali, senza però tenere nella debita considerazione la possibilità che ad un livello di comprensione superiore esista un qualcosa in base al quale inquadrare il tutto secondo un punto di vista alternativo. Riteniamo che le ipotesi di Sheldrake a riguardo dei campi morfici possano contribuire all’individuazione di quel quid, di quel qualcosa in più, che pare mancare alla teoria della mente bicamerale.

Ma ora facciamo un piccolo passo indietro ritornando a parlare di ciò di cui discutevamo all’inizio del presente articolo: dell’evidente differenza che esiste a livello di coscienza negli eroi omerici dell’Iliade rispetto a quelli dell’Odissea. Ebbene, ci piace pensare che la nostra spiegazione possa essere altrettanto soddisfacente di quella della mente bicamerale di Jaynes. Se il personaggio di Ulisse, così come presentato nell’Odissea, è portatore di una coscienza molto più evoluta e sofisticata di quella di un Achille o di un Agamennone, questo sarebbe dovuto – almeno così riteniamo – all’enorme lasso di tempo che si pensa sia intercorso tra la stesura delle due opere universalmente attribuite ad Omero. Si tratterebbe di un lasso di tempo probabilmente ben maggiore di quanto si sia sempre creduto finora. Evidentemente, nell’ipotesi in cui avessimo ragione, risulterebbe impossibile datare con esattezza la data di compilazione dell’Iliade: questa potrebbe perdersi, letteralmente, nella notte dei tempi. Ma l’impressione è che essa sia stata composta in un’epoca in cui le persone non avevano ancora avuto modo di distaccarsi in maniera piena da una coscienza che era quasi esclusivamente di tipo collettivo.

Si riprenda l’esempio di prima inerente ai cristalli. Viene sintetizzata una nuova sostanza. Questa fatica a cristallizzare perché manca ancora un campo morfogenetico di riferimento abbastanza sviluppato per consentire una stabile cristallizzazione. Man mano che si susseguono le “generazioni” di questa nuova sostanza di sintesi recente, il relativo campo morfogenetico prende vigore. In parallelo anche il processo di cristallizzazione si stabilizza. La nostra ipotesi è che ai tempi della stesura dell’Iliade il campo morfogenetico/coscienza dei protagonisti degli eventi ivi narrati non si fosse ancora così sufficientemente evoluto da permettere loro di avere una coscienza che fosse qualcosa di più di una mera coscienza collettiva.

In altre parole, quando si parte dal presupposto che la coscienza cresce e si evolve nella stessa maniera di un campo morfico, si deve postulare che nelle fasi iniziali di questo campo morfogenetico/coscienza le esperienze personali soggettive che concorrono al suo sviluppo e progresso non siano ancora sufficienti per quantità e qualità per raggiungere – per così dire – una massa critica. Quest’ultima sarebbe necessaria affinché le persone collegate per risonanza morfica a questo campo/coscienza possano attingere ad un numero di informazioni e di conoscenze sufficiente perché divenga loro possibile tentare di sviluppare una propria coscienza individuale più articolata, soggettiva e volitiva. Ovviamente avrebbero sì una coscienza, ma di gruppo, dove comunque l’individualità e la soggettività sarebbero molto sfumate. In queste persone prevarrebbe un tipo di coscienza collettiva il cui retaggio può oggi forse essere rinvenuto in quello che Jung chiamava inconscio collettivo ed a cui ancora oggi ciascuno di noi ha la possibilità di ricollegarsi attraverso simboli e figure archetipici. Si tratterrebbe insomma di una coscienza di tipo alveolare, non molto dissimile da quella in essere, per esempio, nelle grandi colonie di insetti, come api, formiche e termiti.

I termitai costituiscono un curioso fenomeno della natura. Si tratta spesso di costruzioni incredibilmente grosse e complesse. A titolo di esempio si pensi che in Africa e nel Sud Est asiatico vive una specie di termiti, le Macrotermes bellicosus6, le più grosse al mondo, che arrivano a costruire termitai che possono raggiungere i 12 metri in altezza ed addirittura i 40 metri di profondità attraverso una serie di minuscoli tunnel7. Facendo le debite proporzioni, è come se l’uomo costruisse grattacieli di più di dieci chilometri di altezza.

Evidentemente il tempo necessario per la loro costruzione comporta tempi di ultimazione che si estendono per diverse generazioni di termiti. È noto che gli insetti possono comunicare tra di loro attraverso vari stimoli naturali, come rumori, contatto e odori, usando segnali chimici come i ferormoni8. Tuttavia non ci si spiega come le termiti diano l’impressione di conoscere costantemente quale è l’aspetto finale che la costruzione alla quale stanno prendendo parte dovrà avere. Stupisce altresì il fatto che sappiano sempre cosa devono fare anche se è chiaro che non avranno la possibilità di vedere ultimato questo loro lavoro. E per di più non si capisce come possano seguitare a comunicare anche in condizioni in cui non vi può oggettivamente essere un contatto diretto tra di loro.

Un famoso naturalista e letterato boero, Eugène Marais9, dedicò parte della sua vita allo studio delle colonie di termiti che crescono gigantesche in Sud Africa. Le sue conclusioni sono raccolte in un libro che ebbe un discreto successo10. Egli condusse specifici esperimenti per comprendere il modo in cui viene organizzato il lavoro all’interno di questi enormi termitai. Per tale scopo dentro uno di essi inserì un’apposita lamina di acciaio di opportune dimensioni in modo che questo fosse suddiviso in due distinti settori. Così facendo, le termiti sarebbero state costrette a lavorare su – per così dire – due distinti cantieri. È un po’ quello che succede anche al giorno d’oggi in un grosso cantiere in cui si scava una lunga galleria: una prima squadra lavora da un lato della montagna, la seconda dall’altro, ed alla fine le due si ricongiungono più o meno a metà. Solo che oggi si dispone di marchingegni molto sofisticati che consentono di realizzare il lavoro con millimetrica precisione. Nel caso delle termiti questo in apparenza non era possibile perché la posa della lamina di acciaio avevo proprio lo scopo di impedire agli insetti di comunicare tra di loro attraverso i normali organi sensoriali. In più anche la cella della regina, presente in uno dei due, restava completamente separata dal secondo Nonostante questo oggettivo impedimento, le termiti continuarono a lavorare indefessamente, come se nulla fosse successo. Incredibilmente, una volta tolta la lamina, Marais si accorse che le due parti di termitaio, che nel frattempo erano state costruite separatamente l’una dall’altra, combaciavano in maniera perfetta, come se la comunicazione tra gli insetti dei due settori non fosse mai venuta meno.

Si ha quasi l’impressione che questi laboriosi insetti conservino un progetto architettonico tutto interiore. Questo spinse Marais a formulare una intuizione geniale: e cioè che un termitaio, più che a una società composta di milioni di singoli insetti, deve essere considerato nel suo insieme con un unico organismo, dove alcune termiti costituiscono la bocca e il sistema digestivo, altre fungono da armi di difesa, come potrebbero essere le corna e gli artigli di un animale, altre rappresentano gli organi riproduttivi, e così via. Un termitaio non sarebbe altro che ciò che oggi i naturalisti hanno preso a chiamare super-organismo: milioni di singoli insetti appartenenti alla medesima colonia, agendo all’unisono pur se sprovvisti di una propria specifica volontà ma perfettamente coordinati fra loro, danno vita a quello che nell’insieme appare come un unico organismo di dimensioni enormemente superiori e con capacità e qualità che trascendono in misura incommensurabile quelle proprie del singolo individuo. Curiosamente, Marais si accorse anche che, se si uccide la regina, tutto di un tratto le termiti smettono di lavorare ed iniziano a girovagare senza meta come se si sentissero perse. È quasi come se fossero collegate telepaticamente con la loro regina.

In natura esistono parecchi altri esempi di super-organismi. Si pensi agli stormi di uccelli. A chi non è capitato, scrutando il cielo, di ammirare il movimento perfettamente sincrono dei volatili che in gruppo si librano in volo? Ogni volta restiamo meravigliati nel vederli disegnare quelle che ci appaiono come splendide coreografie. Ed ogni volta – immancabilmente – non possiamo esimerci dal chiederci come sia possibile che questi uccelli volino così a stretto contatto l’uno con l’altro senza finire con lo scontrarsi tra di loro.

In verità ogni uccello pare interagire con i suoi vicini più prossimi ma tutti i movimenti di ogni singolo esemplare influiscono sull’intero gruppo e contemporaneamente sono influenzati dall’intero gruppo. È esattamente ciò che Sheldrake, definisce campo morfico. Grazie ad esso viene resa possibile la propagazione di informazioni attraverso lo stormo che viaggia ad una velocità costante. In quanto super-organismo, gli stormi di uccelli sono caratterizzati da una sorta di coscienza di gruppo che si concretizza in un processo decisionale collettivo così agile da permettere al segnale di virata da parte di un uccello, solitamente piazzato al margine del gruppo, di raggiungere quasi istantaneamente – si potrebbe quasi dire per entanglement quantistico – tutte le centinaia di membri di cui è composto lo stormo. Lo stesso succede coi banchi di pesce.

A ben vedere, vi sono dei casi in cui persino noi umani sembriamo agire in gruppo come se ci stessimo comportando come se costituissimo un super-organismo. Sono casi rari e singolari, certo, però piuttosto interessanti. Diversamente non ci si capacita di come diventino possibili azioni e comportamenti altrimenti difficilmente spiegabili. Un esempio di gruppo umano che si comporta alla stregua di un super-organismo animale è quello di… di un gruppo di ciclisti professionisti impegnato in una corsa. Mi perdonerete questa divagazione banale. Sapete, sono un grande appassionato di ciclismo. Malgrado tutto, questo è ancora uno sport che mi appassiona grandemente. Ma immagino che anche a voi, vedendo i corridori sfrecciare in gruppo a velocità folli, gomito a gomito, con le ruote anteriori degli uni divise solo da pochi centimetri da quelle posteriori degli altri (in gergo si dice che si lima la ruota), venga naturale domandarsi: “ma come fanno a non toccarsi e a ruzzolare a terra dando vita a rovinosi capitomboli (che per altro sono all’ordine del giorno)? Certamente ci sono precisi fattori da tenere in considerazione, quali la bravura e l’esperienza personale; in fin dei conti, si tratta di professionisti che percorrono ogni anno in sella alle proprie biciclette decine di migliaia di chilometri.

Però, a volte, nel guardare in azione un gruppo di ciclisti professionisti si ha la sensazione di vederci piuttosto proprio uno stormo di uccelli che «aprono le ali, scendono in picchiata, atterrano meglio di aeroplani, cambiano le prospettive al mondo: voli imprevedibili ed ascese velocissime, traiettorie impercettibili, codici di geometria esistenziale»11. Che persino un folto gruppo di ciclisti venga interessato da una qualche forma di campo morfico che rende possibili dinamiche simili a quelle presenti all’interno di uno stormo? Ci verrebbe di rispondere positivamente. Altrimenti diventa difficile spiegarsi certi numeri da circo come quello di cui alcuni ciclisti sono capaci quando corrono in gruppo. Pare difficile limitarsi a dire che è solo una questione di prontezza di riflessi. Un esempio? Si guardi questo: a tutt’oggi non mi spiego come Sagan sia riuscito a fare quello che ha fatto sulle pietre della Roubaix:

Ma eccoci di nuovo a parlare degli eroi omerici dopo l’ennesima, lunga digressione! Ci scusiamo con il lettore per queste continue divagazioni che obiettivamente appesantiscono il discorso rendendo difficile la comprensione del testo. Ma è anche vero che si tratta di argomenti molto complessi che abbracciano differenti aspetti dello scibile umano. Avere un quadro di insieme il più completo possibile diventa difficile senza approfondire di volta in volta argomenti così diversi. Ma è ormai giunto il tempo delle conclusioni definitive. Dunque, chiediamoci cosa c’entrino pesci, insetti e volatili con gli eroi le cui gesta sono narrate nell’Iliade e nell’Odissea. Ebbene, il fatto è che pensiamo che l’uomo agli albori della civiltà potesse avere una coscienza collettiva, di tipo alveolare, non dissimile da quella dei super-organismi animali di cui abbiamo parato nelle pagine precedenti.

Dovendosi considerare quello della coscienza un processo di sviluppo su base cumulativa, col passare del tempo questa coscienza si sarebbe accresciuta secondo le modalità proprie di un campo morfogenetico. A partire da un dato momento sarebbe divenuto possibile ai singoli individui di attingere ad un nucleo di informazioni sempre più numerose, particolareggiate e specifiche, contenute in questa sorta di cloud che è la coscienza di gruppo. La conclusione naturale di questo processo, che è verosimilmente durato millenni piuttosto di secoli, sarebbe stata alla fine la nascita di una coscienza individuale intrinsecamente soggettiva e volitiva. Ma in tempi antichi, appunto agli albori della civiltà, le cose sarebbero state differenti. In quella remota antichità avrebbe prevalso nelle menti degli individui una coscienza di gruppo di tipo alveolare. Una coscienza di gruppo che, occasionalmente, potrebbe emergere in casi eccezionali ancora al giorno d’oggi, come pare suggerire l’esempio del gruppo ciclistico.

Questi individui presumibilmente si sarebbero comportati in maniera non difforme da quanto succede nei grossi gruppi di animali. Sarebbero stati essi stessi parte di un super-organismo. Quindi, ogniqualvolta gli eroi omerici dell’Iliade udivano i comandi delle voci degli dèi, quello che si ritiene succedesse in realtà è che essi percepissero impulsi ed informazioni provenienti da questo campo di coscienza comune che era la loro coscienza collettiva. Non era – come sostenuto da Jaynes – la mancata corretta interazione tra i due emisferi del cervello a far sì che essi avessero queste allucinazioni uditive; era invece la loro coscienza di gruppo che parlava loro. E loro la scambiavano, appunto, per la voce degli dèì.

Per il momento, può bastare così. Ci ripromettiamo di riprendere in mano in un prossimo futuro l’argomento oggetto di questa discussione. Esso merita sicuramente un’ulteriore approfondita trattazione. Ci rendiamo conto che quanto descritto in queste pagine è di una vastità e complessità estreme. Sarebbe persino riduzionistico definire semplicemente come ostico questo argomento, e non solo perché, in realtà, ci sarebbero tante altre cose da dire al riguardo. In concreto, abbiamo appena iniziato a scandagliare le profondità di questo sconfinato oceano di sapere e conoscenza che sono i campi della fisica quantistica. Ma, soprattutto, la verità è che ciascuno di noi è un po’ come Ulisse. Dante aveva ragione: noi essere umani non fummo fatti per viver come bruti, ma per seguire virtù e conoscenza. Questo afflato emotivo che ci spinge alla virtù ed alla conoscenza è ciò che, in ultima istanza, permette alla coscienza di evolversi. Ma non ci si faccia pie illusioni: non è questo un pasto gratis.

La Coscienza, banalmente, si evolve prendendo coscienza di se stessa. E l’unico modo per cui una siffatta Coscienza possa evolversi prendendo coscienza di se stessa è attraverso la dualità, l’opposizione, il contrasto, la continua lotta tra gli opposti, lo yin e lo yang. Ognuno di noi percepisce se stesso sempre mettendosi in contrapposizione con l’altro. Se non poniamo un confine ben definito tra noi e l’altro, non saremmo a nostra volta in grado di avere una corretta percezione di noi stessi. Ma questo non può che portare al conflitto. La coscienza deve essere il risultato di una interazione di forze sia positive che negative. La coscienza deve essere in grado di esperimentare sia il Bene che il Male, ma soprattutto di riuscire a comprendere la ragione della coesistenza di queste due forze. Quindi dolore, morte, sofferenza, lutti, persino il Male appunto, sono elementi imprescindibili di ogni processo di crescita coscienziale. Non è facile.

Il seguito alla prossima puntata!

  • 1 https://www.orazero.org/lorrore-la-teoria-parte-1/
  • 2 https://it.wikipedia.org/wiki/Rupert_Sheldrake
  • 3 https://it.wikipedia.org/wiki/Polipeptide
  • 4 https://it.wikipedia.org/wiki/Genoma_umano#cite_note-IHSGC2001-2
  • 5 https://it.wikipedia.org/wiki/DNA_non_codificante
  • 6 https://en.wikipedia.org/wiki/Macrotermes_bellicosus
  • 7 http://www.ecologicacup.unisalento.it/index.php/2016-06-14-11-00-23/elenco-tematiche/16-case-nidi-e-tane?showall=&start=6
  • 8 https://www.treccani.it/enciclopedia/ferormone/
  • 9 https://en.wikipedia.org/wiki/Eugène_Marais
  • 10 https://www.adelphi.it/libro/9788845900549
  • 11 https://youtu.be/yIwcH4Lid_Y
  • https://www.orazero.org/la-coscienza-parte-1/