Dicevamo all’inizio che quello della coscienza è un tema di cui già ci si è occupati in precedenza in due articoli. Un veloce ripasso è d’uopo. Nel primo, prendendo spunto dalle oggettive differenze riscontrabili nei due poemi omerici dell’Iliade e dell’Odissea circa il concetto stesso di coscienza, si è ampiamente dibattuto di una tesi assai controversa, introdotta anni fa dallo psicologo americano Julian Jaynes nel suo classico Il crollo della mente bicamerale e l’origine della coscienza. Jaynes sosteneva che le prime civiltà umane evolute, quali gli antichi egizi e le popolazioni mesopotamiche, fossero in possesso di un tipo di mente da lui definita bicamerale, dal momento che prima dello sviluppo del linguaggio e della comunicazione i due emisferi del nostro cervello avrebbero operato nell’uomo in maniera separata l’uno dall’altro, quasi come se fossero organi diversi. Questo, secondo l’autore, avrebbe portato ad uno sviluppo limitato della coscienza umana, come si evincerebbe dai dialoghi degli eroi omerici dell’Iliade dove nessuno di loro palesa atti mentali sufficientemente strutturati tali da provare in loro la presenza di un’autocoscienza volitiva. Al contrario, nell’Odissea il personaggio di Ulisse ci appare già come un uomo moderno che, dotato di una volontà e di una soggettività specifiche, esercita il proprio libero arbitrio.

Nella seconda parte, dopo aver puntualizzato come il lavoro di Jaynes sia stato utile per comprendere che la coscienza umana si evolve nel corso del tempo, si è cercato di mettere in relazione questa stessa evoluzione con un’altra teoria di recente introduzione, ossia la teoria dei campi morfici elaborata dal biologo inglese Rupert Sheldrake. Come ci si ricorderà Sheldrake, per dare spiegazione al fatto che un sistema, per quanto complesso, non è mai semplicemente la risultante delle singole componenti di cui è composto, introdusse nel dibattito scientifico l’esistenza di un assai singolare campo – che egli battezzò morfico – che sarebbe in grado di esercitare un’influenza sulla materia al pari degli altri campi di forza, quali quello elettromagnetico e quello gravitazionale. Questo però, più che un vero e proprio campo di forza, sarebbe da intendersi come un campo informativo perché l’influenza sulla materia avverrebbe appunto attraverso uno scambio di informazioni per mezzo di un processo di risonanza non-locale.

Per quanto in apparenza fantascientifico, il pensiero di Sheldrake collima perfettamente con altre teorie della meccanica quantistica, tra le quali la più avvincente – almeno ai nostri occhi – appare quella del paradigma olografico elaborata da David Bohm. A detta di molti fisici quantistici è oramai giunta l’ora di abbandonare il concetto di causa-effetto cui da secoli la fisica newtoniana ci ha abituato, per passare definitivamente a quello di sincronicità. È fondamentale altresì ricordarsi che per Sheldrake i campi morfici si situerebbero in una dimensione a-temporale e a-spaziale, in una sorta di eterno presente (molti fisici lo chiamerebbero campo di Plank o di punto zero), e che essi sarebbero essenzialmente qualcosa di simile ad uno spazio di archiviazione di informazioni e di memoria che ricorda un comune cloud internet dei giorni nostri. Questo campo di archiviazione, essendo accessibile in qualsiasi momento ed in ogni luogo – ossia in maniera sincronica – ai membri di un determinato gruppo biologico, costituirebbe la memoria collettiva della specie (in sostanza ciò che Jung chiamava inconscio collettivo).

Va inoltre rammentato che i campi morfici non sono mai immutabili, si evolvono nel tempo perché, essendo appunto spazi di archiviazione, raccolgono col passare delle generazioni le informazioni derivate dalle esperienze dei singoli membri del gruppo biologico di riferimento. In questo modo le generazioni successive verranno influenzate da un campo morfico alla cui evoluzione hanno contribuito le generazioni precedenti. A conclusione del suddetto articolo, ci eravamo posti retoricamente una domanda: e se la coscienza umana fosse essa stessa una sorta di campo morfogenetico consistente in un campo di informazioni e di conoscenze presente in una dimensione a-temporale e a-spaziale? In fin dei conti, le meccaniche alla base dell’evoluzione della coscienza appaiono molto simili a quelle secondo cui un campo morfico si forma, cresce e si evolve. Ebbene, stando a quanto previsto da un’altra tra le più stupefacenti ed affascinanti teorie scientifiche di questi ultimi anni, la risposta a questo quesito potrebbe essere affermativa: la coscienza umana stessa sarebbe quindi una sorta di campo di informazioni presente in una dimensione a-temporale e a-spaziale.

Questa teoria rivoluzionaria ha un nome singolare: modello ORCH-OR (ORCHestrated Objective Reduction)1, in italiano “Riduzione Obiettiva Orchestrata”, ed è stata ideata da due delle menti scientifiche più brillanti degli ultimi decenni: il fisico e matematico britannico Roger Penrose, vincitore del premio Nobel per la fisica nel 20202, ed il medico anestesista statunitense Stuart Hameroff3. Va premesso innanzitutto che al momento manca ancora una prova o verifica sperimentale ineccepibile che la suffraghi. Ma ciò che la rende straordinariamente avvincente è il fatto che parte da presupposti completamente differenti rispetto a quelli della scienza cosiddetta standard, fautrice di un modello meccanicistico della coscienza. Pertanto essa tutto il potenziale, una volta che fosse sperimentalmente confermata, per imporci un vero e proprio cambio di paradigma scientifico in senso kuhniano4, a seguito del quale giocoforza saremmo tenuti ad iniziare ad osservare la realtà con occhi completamente nuovi.

Secondo la fisica newtoniana la manifestazione di un atto di coscienza sarebbe un fenomeno riconducibile ai continui scambi di energia di tipo elettrochimico che hanno luogo all’interno dei (e tra i) neuroni quando questi danno origine ad una rete neurale sufficientemente complessa; il nostro cervello, dunque, funzionerebbe come un computer, per quanto pur sempre un computer di incredibile complessità. Al contrario, per Penrose ed Hameroff i momenti di coscienza che ognuno di noi sperimenta milioni di volte nel corso della giornata sono il risultato di un processo non più di tipo algoritmico ma quantistico, innescato da quello che gli autori definiscono un “collasso orchestrato” di uno stato di coerenza quantistica che si verifica tra le tubuline presenti nei microtubuli, a loro volta presenti in gran numero nelle strutture neurali del cervello.

Detto così, c’è solo da farsi venire il mal di testa. È comprensibile che d’acchito queste frasi appaiano astruse ed incomprensibili. Io stesso, che non posso affatto vantarmi di possedere una preparazione scientifica adeguata, ho avuto non poche difficoltà nell’afferrare questi concetti, proprio perché in pochi hanno famigliarità con essi. Quindi è assolutamente necessario procedere ad una spiegazione sufficientemente accurata partendo da una descrizione delle cellule eucariote, per quanto semplificata.

Come è noto, i neuroni sono la cellula-base del tessuto nervoso; il loro compito consiste nel raccogliere, elaborare e trasferire gli impulsi elettrici. Ogni neurone è formato da un corpo cellulare, che contiene il nucleo, e da un numero di sottili prolungamenti che hanno rispettivamente la funzione di ricevere e trasmettere gli impulsi nervosi: i primi sono chiamati dendriti mentre i secondi assoni.

Ogni neurone, come qualsiasi altra cellula, è provvisto di un citoscheletro all’interno del suo citoplasma. Ricordiamo innanzitutto che il citoplasma consiste nell’intero volume della cellula, con esclusione del nucleo: in pratica è tutta la porzione di una cellula compresa tra l’interno della membrana cellulare ed il nucleo. All’interno di questa porzione cellulare sono presenti diversi organelli cellulari. Tuttavia, il citoplasma non va considerato alla stregua di una massa gelatinosa informe, in cui sono sparsi il nucleo e gli organelli. Al contrario, esso possiede una struttura organizzata grazie alla presenza di un reticolo tridimensionale costituito da proteine fibrose che si estende dal nucleo fino alla superficie interna della membrana citoplasmatica. Questa matrice fibrosa, detta appunto citoscheletro, contribuisce a definire la forma della cellula rivestendo un ruolo chiave nel movimento e nella divisione cellulare.

In poche parole, il citoscheletro può essere definito alla stregua dell’apparato scheletrico della cellula. I suoi tre principali componenti sono i microtubuli, i filamenti di actina ed i filamenti intermedi.

A noi interessano solamente i primi. Nello specifico, i microtubuli sono lunghi cilindri cavi composti da una proteina globulare detta tubulina5.

Le tubuline hanno una particolarità assai interessante: ogni loro molecola porta una carica dipolare. Esse quindi possono comportarsi alla stregua di un dipolo elettrico potendo assumere due stati di polarizzazione basati sugli stati 1 e 0. Ovvero ogni tubulina ha la possibilità di diventare simile ai circuiti on-off di un computer svolgendo all’interno dei microtubuli il ruolo di bit.

Solo dopo questo lungo preambolo possiamo spingerci ad analizzare più in profondità il lavoro congiunto di Penrose e di Hameroff. La sua maggiore peculiarità consiste nell’ipotizzare che i microtubuli delle cellule neuronali possano avere proprietà molto simili a quelle delle particelle elementari, come gli elettroni ed i fotoni. Al pari delle particelle subatomiche, anche i microtubuli, attraverso le tubuline di cui sono composti, sarebbero in grado di produrre all’interno del nostro cervello stati di coerenza quantistica descritti da una funzione d’onda. In altre parole, i microtubuli sarebbero capaci di entrare in uno stato di entanglement tra di loro. L’entanglement – lo ricordiamo – è quel fenomeno della fisica quantistica in cui si manifestano tra particelle entrate precedentemente in contatto tra di loro delle correlazioni sincroniche a prescindere dalla distanza da cui sono separate, tanto da costituire un’unica unità in cui esse agiscono all’univoco, come se fossero degli strumenti musicali che suonano la stessa nota nello stesso identico istante. Per questo motivo, due particelle entangled possono essere descritte dalla medesima funzione d’onda (attraverso l’equazione di Schrödinger), che è una particolare funzione matematica il cui scopo è stabilire la probabilità che una particella subatomica si trovi in un luogo piuttosto che in un altro.

Ma da dove trarrebbe origine la coscienza? Ebbene, secondo la teoria di Penrose e di Hameroff i momenti di coscienza si verificherebbero ogni volta che si realizza un collasso della funzione d’onda che descrive lo stato di coerenza quantistica tra i microtubuli. La genesi dei momenti di coscienza si articolerebbe in due fasi distinte. Nella prima fase, ha luogo la sovrapposizione di tutti gli stati quantistici delle tubuline nei microtubuli, che entrano pertanto in uno stato di entanglement. Nella seconda si assiste al collasso della relativa funzione d’onda. Ed è proprio in questo momento che secondo Penrose ed Hameroff si manifesta l’accadimento di un momento conscio. Non appena la funzione d’onda collassa, questa sorta di orchestra di microtubuli passa da uno stato di animazione sospesa a uno stato di concretezza. In quel preciso istante si genererebbe un momento di coscienza che, secondo i due, in un essere umano medio si ripeterebbe almeno un milione di volte al giorno, ossia ogni quarantesimo di secondo circa.

Tale processo, non a caso, è stato denominato con l’espressione Riduzione Obiettiva Orchestrata (ORCH-OR: ORCHestrated Obiective Reduction) proprio perché il temine “obiettiva” si riferisce al fatto che il collasso della funzione d’onda “riduce” uno stato quantistico in uno stato classico, in cui si manifesta un unico e specifico “elemento percepibile di coscienza” che è il risultato di un’azione “orchestrata” di una miriade di microtubuli entangled all’interno del cervello. In base ai calcoli effettuati dai due scienziati si è potuto appurare che, al fine di generare un momento di coscienza corrispondente alla riduzione orchestrata, è necessario un numero di tubuline pari ad almeno un miliardo (109). Nel nostro cervello, tuttavia, il numero delle tubuline è enormemente maggiore; ce ne sono un miliardo di miliardi (1018).

Il nostro cervello in definitiva non sarebbe solamente un computer, per quanto così avanzato da svolgere complesse computazioni algoritmiche lineari. Piuttosto andrebbe considerato come un computer quantistico grazie al fatto che le tubuline non solo possiedono una carica dipolare tale per cui possono assumere al pari di un bit gli stati 0 e 1, ma soprattutto possono persino entrare in uno stato di sovrapposizione quantistica, esattamente come fanno i qubit di un vero e proprio computer quantistico6. Tuttavia, per quanto già questo sia sufficiente per comprendere la portata rivoluzionaria insita in questa teoria, vi è un aspetto ancora più rilevante da tenere in considerazione.

Chi ha un’infarinatura di meccanica quantistica, nel leggere queste pagine, si sarà già posto il problema: che cosa fa sì che la funzione d’onda che descrive l’intera struttura orchestrata tra i microtubuli all’interno del nostro cervello possa effettivamente collassare? Noi sappiamo che, generalmente, una funzione d’onda che descrive uno stato di sovrapposizione quantistica collassa o a seguito dell’osservazione oppure perché nel frattempo è intervenuto il meccanismo della decoerenza. Quest’ultimo ha luogo allorché si passa dal mondo quantistico, che è a livello del microcosmo, al mondo classico, quello macroscopico della nostra abituale realtà quotidiana. La decoerenza si manifesta quando un oggetto quantistico interagisce con l’ambiente esterno. Questa interazione è equivalente ad una misurazione che fa collassare lo stato quantistico nella realtà-standard.

Ebbene, ciò che c’è di veramente rivoluzionario nella teoria di Penrose è il fatto che secondo lui il collasso di questa particolare funzione d’onda avviene non a seguito di una misurazione o del meccanismo della decoerenza, bensì come un collasso quanto-gravitazionale che si verificherebbe spontaneamente a livello del campo di Planck (10-33 cm). Ecco, in effetti bisogna convenire che questo è un discorso veramente ostico. Non che quanto detto finora non lo sia; ma qui decisamente le cose si fanno ancora più complesse e di difficile comprensione. Possiamo comunque anticipare che il pensiero di Penrose concorda con quello di altri scienziati dei cui lavori abbiamo già discusso, Rupert Sheldrake in primis ma anche David Bohm, a testimonianza del fatto che, pur trattandosi di teorie non ancora universalmente accettate in seno alla comunità scientifica, esse stanno gradualmente portando ad un cambio di paradigma generalizzato.

Fondamentalmente, Penrose sostiene l’esistenza di un qualcosa che si potrebbe definire come un campo di forza presente in un “altrove” non collocabile nella nostra realtà fisica macroscopica e che sarebbe in grado di esercitare sui microtubuli, che nel frattempo si sono venuti a trovare all’interno del nostro cervello in uno stato di coerenza quantistica, un’influenza tale da portarli in uno stato di decoerenza. Che cosa sia esattamente questo campo di forza, beh, è difficile da spiegarsi, ma fondamentalmente si tratterebbe di un flusso di pura informazione più che di una vera e propria forza. In ogni caso, per spiegare tale processo della gravità quantistica, Penrose fa riferimento al livello più elementare della realtà: quello che viene denominato campo di Plank, ma anche campo di punto zero, vuoto quantistico o schiuma quantistica. Questo è, per così dire, la “zona” più profonda della realtà dove il mondo quantistico ed il mondo relativistico finiscono con il coincidere. Il vuoto quantistico ci appare una regione lontana. In realtà, si trova nello spazio interatomico, cioè ovunque, e quindi anche nel nostro corpo e nei microtubuli del nostro encefalo.

A questo punto non possono non notarsi anche delle similitudini con il pensiero di Bohm. Abbiamo già parlato della sua teoria del paradigma olografico, secondo cui la ragione per la quale le particelle subatomiche restano in contatto tra di loro indipendentemente dalla distanza che le separa, dando così origine al fenomeno dell’entanglement quantistico, risieda nel fatto che questa loro separazione è un’illusione dal momento che ad un livello di realtà più profondo tali particelle non sono entità individuali e distinte ma estensioni della stessa realtà fondamentale. Questa constatazione spinse Bohm a ipotizzare l’esistenza di un ordine implicito contrapposto ad un ordine esplicito. Il primo sarebbe questa realtà fondamentale in cui tutto è intrinsecamente collegato e compartecipante in un’unità indivisibile; il secondo, è invece la realtà fenomenica e materiale, ma illusoria, nella quale noi stessi siamo immersi.

Bohm, non soddisfatto dell’interpretazione classica della fisica quantistica secondo la Scuola di Copenhagen7 – per la quale l’impossibilità di determinare simultaneamente posizione e velocità di una particella elementare porterebbe alla conclusione che la sua traiettoria sia governata dal caso – per poter evitare l’indeterminismo e la casualità proprie della stessa, introdusse il concetto di potenziale quantico per esprimere il comportamento sincronico delle particelle subatomiche. Secondo lui, il mondo microscopico riceverebbe costantemente informazioni in maniera non-locale da questo potenziale quantico da cui sarebbe guidato in ogni istante. La funzione d’onda che descrive la traiettoria di una particella subatomica non sarebbe altro che la rappresentazione matematica di quest’ultimo. In altre parole, nell’ambito delle idee di Bohm, il moto delle particelle subatomiche non avverrebbe più in maniera casuale ma sotto la guida di un “campo nascosto”, cioè appunto il potenziale quantico, in grado di determinarne la traiettoria.

La struttura del potenziale quantico non è evidente nel mondo newtoniano in cui viviamo, perché sarebbe situato in un piano invisibile, in un qualcosa che si potrebbe definire non-tempo-non-spazio. Esso andrebbe inteso come un particolare campo di energia in grado di funzionare come uno strumento di guida per le particelle partendo dalle sua fondamenta elementari. Ma è un campo energetico assai particolare perché, a differenza di quelli che operano nella nostra realtà materiale, quali un campo elettromagnetico classico, la sua intensità non diminuisce con l’inverso del quadrato della distanza, perché esso non avrebbe vincoli né di spazio né di tempo. Anzi, sarebbe anche improprio parlare di intensità perché in realtà sarebbe portatore di pura informazione: un’informazione che, originandosi in un mondo nascosto, avvolgerebbe questo nostro mondo di materia agendo tramite risonanza sulle componenti apparentemente frammentate della nostra realtà fenomenica in maniera istantanea e totalmente indipendente dalla distanza, ossia in maniera non-locale.

Per favorire la comprensione di questo concetto, Bohm usò una metafora particolare: quella di una nave che solca un mare in tempesta. Immaginiamoci la scena: i marinai di questa nave possono contare sui motori e su una buona scorta di carburante, ma con una pessima visibilità, costretti a fronteggiare onde sempre più alte e venti di burrasca, si sentirebbero disorientati ed in totale balia degli eventi e del caso se non potessero contare su un radar (oggi avrebbero a disposizione soprattutto apparecchiature GPS) capace di guidarli in porto.

Nella metafora di Bohm, i motori della nave rappresentano la descrizione tradizionale della fisica classica ed il radar il potenziale quantico. Per quanto fondamentali perché senza di essi la nave non si muoverebbe, i motori da soli non sarebbero in grado di condurre una nave in porto; è necessario che lungo la sua rotta essa sia guidata passo per passo da dei segnali radar. Da un certo punto di vista, l’energia associata a questi segnali radar è risibile rispetto alla potenza sprigionata dai motori; ma in loro assenza, la nave solcherebbe i mari senza mai raggiungere la propria meta. Similmente si comporta il mondo fenomenico materiale in cui noi stessi ci troviamo ad operare: non avrebbe alcuna finalità ultima e sarebbe governato solo dal caso – anzi il caos più assoluto impererebbe – se non vi fosse questo potenziale quantico che costantemente lo “informa”, ossia gli trasmette informazioni.

A questo punto, il lettore non avrà potuto fare a meno di rimarcare come vi sia una forte convergenza tra il pensiero di Penrose, di Sheldrake e di Bohm. Ci pare di poter asserire che grossomodo dicano le stesse cose. In quella realtà fondamentale che trascende i nostri sensi e che i fisici sono soliti chiamare campo di Plank o di punto zero (Bohm lo avrebbe chiamato ordine implicito), esistono dei campi energetici di natura particolare perché totalmente diversi da quelli presenti nella nostra realtà fenomenica (Sheldrake li identificherebbe nei campi morfici e Bohm stesso nel potenziale quantico), che esercitano un’influenza sulla materia trasmettendo per risonanza in modo non-locale pura informazione (che per Penrose darebbe luogo alla gravità quantistica).

Dopo questa lunga e complessa dissertazione scientifica, siamo tenuti a fare un ulteriore salto di qualità nel nostro ragionamento, che ci porterà ad affrontare temi ancora più difficili da comprendere, ma anche incredibilmente affascinanti per le implicazioni metafisiche che comportano. Sostenere che la coscienza nasce dal collasso della funzione d’onda che descrive uno stato di sovrapposizione quantistica tra i microtubuli dei neuroni del nostro cervello a seguito della manifestazione della gravità quantistica significa, in ultima istanza, asserire un concetto ben preciso e dalla portata davvero stupefacente:

«che questi momenti di coscienza sarebbero resi possibili solo dal fatto che esiste una struttura materiale come il nostro cervello che permette, attraverso i microtubuli, la manifestazione di qualche cosa di immateriale come la coscienza. In altre parole, se non ci fosse un mezzo materiale a fare da tramite, non potrebbe esserci nulla di coscienziale (o spirituale) a manifestarsi: ciò dimostrerebbe che la coscienza, intesa come un succedersi di momenti che si ripercorrono in media ogni quarantesimo di secondo, è un meccanismo possibile solamente in strutture viventi fatte di materia. Ciò non toglie però che, in mancanza di una struttura vivente con relativo apparato cerebrale, qualcosa rimane comunque registrato nel campo di Planck. Ad esempio, cosa succede quando una persona muore e con essa i microtubuli che dovrebbero permettere l’esperienza dei momenti di coscienza? È chiaro che il collasso orchestrato dei microtubuli non può verificarsi per la semplice ragione che il vettore di materia che lo permette è morto. Ma dire che non può avvenire il collasso della funzione d’onda non è la stessa cosa che dire che non può essere mantenuto uno stato di sovrapposizione quantistica in una specie di “animazione sospesa”, in sostanza una specie di ologramma. Perché allora questo ologramma potrebbe funzionare come meccanismo di memoria, una specie di computer quantistico in sostanza. Esso rimarrebbe proprio come sovrapposizione quantistica nel campo di Planck, fino a quando non abbia la possibilità di agganciarsi a delle “strutture vettorizzabili” come i microtubuli che ne permettano il collasso»8.

Si può ben capire quanto siano rivoluzionarie queste constatazioni. Le conclusioni a cui ci portano sono strabilianti. Prima di tutto, bisognerebbe concludere che la nostra coscienza potrebbe non risiedere concretamente all’interno del nostro cervello, come da sempre ritenuto. Quest’ultimo sarebbe solo un involucro materiale, o per meglio dire un intermediario, una sorta di trasduttore gravito-quantistico, il cui compito consiste nel ricevere in modo non-locale informazioni provenienti da questo più profondo livello della realtà – un “altrove assoluto” misterioso ed anche un po’ inquietante che si troverebbe al di là dello spazio e del tempo e che sarebbe la vera sede della coscienza – per poi elaborare questi stessi dati attraverso un processo di computazione quantistica reso possibile dalla particolare struttura delle tubuline che funzionerebbero come dei qubit.

Ma un’ulteriore considerazione ci viene possibile. Così come il nostro cervello – attraverso un qualcosa di assolutamente materiale quali sono i microtubuli – subisce un’influenza da parte della coscienza – che è invece per definizione immateriale – similmente, il mondo materiale nella sua interezza sarebbe esso stesso strettamente correlato al mondo della coscienza perché il potenziale quantico che lo guida, che fa sì che non sia in balia di forze casuali e che in ultima istanza gli fornisce una finalità superiore, potrebbe a sua volta essere considerato come nient’altro che la coscienza della materia medesima.

Si tratta di considerazioni sbalorditive e credo non si sia esagerato quando alcune pagine fa avevamo detto che queste teorie, sempre che vengano un giorno dimostrate come vere, ci avrebbero dovuto portare ad un cambio di paradigma tale da mettere in discussione la nostra stessa esistenza e la concezione della realtà che abbiamo sempre fatto nos.tra La grande novità della fisica quantistica risiede appunto nel fatto che per la prima volta nella scienza occidentale – per lo meno, per la prima volta a partire dall’età dei Lumi – si comincia ad inglobare la coscienza all’interno della realtà materiale. E tutto questo lo si fa attraverso teorie ed interpretazioni scientifiche assai rigorose che si basano su una matematica tanto complessa quanto ineccepibile.

Ma se esiste una qualche forma di Verità coscienziale assoluta che permea di sé tutta la materia, ciò significa che il nostro non è più un universo in preda al caso, ma ci deve essere giocoforza una finalità ultima e precisa. L’entropia stessa – “che viene interpretata come una misura del disordine presente in un sistema fisico qualsiasi”9 – e la seconda legge della termodinamica – secondo cui “un sistema chiuso tende spontaneamente ed in modo irreversibile verso uno stato di massima entropia nel corso del tempo, ossia una situazione di massimo disordine, priva di differenze locali, in cui l’energia ancora disponibile è minima”10 – in presenza di quest’Intelligenza superiore che guida ed indirizza l’intero mondo materiale, diverrebbero dei concetti relativi e sui quali ritornare a riflettere in profondità. Esse potrebbero addirittura fare posto alla neghetropia11, cioè il contrario dell’entropia, con la conseguente evoluzione verso uno stato d’ordine superiore ed armonico.

Giunti a questo punto, è ora di trarre le nostre conclusioni. “Finalmente” – penserà il lettore – “alla buon’ora”. In effetti non ha tutti i torti. In queste pagine ci siamo dilungati parlando di tutto e di più ma ancora non è chiaro che cosa caspita c’entri il piano Kalegi con questa lunghissima dissertazione scientifica. Evidentemente fra le mie qualità non c’è quella della sintesi. Eppure siamo convinti che un nesso tra tutto questo esista veramente. Ma bando alle ciance, dobbiamo andare avanti. Non ci resta che spiegare in cosa consista questo stesso nesso. Ma lo si farà nell’ultima parte dell’articolo; prima però occorrerà presentare un’altra stupefacente teoria scientifica perché si riesca ad avere una più piena comprensione. Lo si farà brevemente. Ma dopo tutto diverrà più chiaro.

  • 1 https://it.wikipedia.org/wiki/Orch-Or
  • 2 https://it.wikipedia.org/wiki/Roger_Penrose
  • 3 https://it.wikipedia.org/wiki/Stuart_Hameroff
  • 4 https://it.wikipedia.org/wiki/Thomas_Kuhn
  • 5 https://it.wikipedia.org/wiki/Tubulina
  • 6 https://www.treccani.it/enciclopedia/qubit_%28Enciclopedia-della-Matematica%29/
  • 7 https://it.wikipedia.org/wiki/Interpretazione_di_Copenaghen
  • 8 Teodorani Massimo, La Mente Creatrice, Cesena, Macroedizioni, pag. 61
  • 9 https://it.wikipedia.org/wiki/Entropia
  • 10 https://www.andreaminini.org/fisica/termodinamica/entropia
  • 11 https://it.wikipedia.org/wiki/Neghentropia
    PARTE DUE di questo articolo https://www.orazero.org/la-coscienza-extinction-mode/
    PARTE UNO di questo articolo https://www.orazero.org/la-coscienza-no-future-parte-2/