Non avrei mai voluto scrivere  sul 25 aprile. Argomento trito e ritrito sul quale sono già stati versati fiumi di inchiostro. Pensavo,  grazie a coronavirus, sarebbe stato un 25 aprile più tranquillo, con meno retorica del solito e, per me, meno doloroso (tutte le volte che si stravolge la verità storica io soffro, sono fatto così). Piazze vuote e forse meno magniloquenza del solito: un popolo che si ribella al tiranno e, armi in pugno, riconquista la libertà perduta.

Ma invece sembrano non volere mollare – neanche il 25 aprile del covid19 – sembrano volere raccontare  alle nuove generazioni la solita vulgate, fatta esclusivamente a loro uso e consumo. Ormai ho quasi 60 anni ed è successo che abbia sentito, in prima persona, i racconti di coloro che il 25 aprile c’erano, eccome se c’erano il 25 aprile del 1945.  Mi sento quindi abbastanza  giustificato, e forse anche obbligato, a raccontare la mia versione della storia,  il mio piccolissimo tassello di verità storica. Diciamo una piccola testimonianza, non credo solo di parte, che forse  potrebbe essere utile per coloro che di 25 aprile hanno letto/sentito solo nelle aule scolastiche o in televisione.
Non ho mai ben capito cosa il popolo italiano celebri il 25 aprile?
Forse la Delta Force anglo-americana che venne a salvare la Bella Ciao Italica dalla prigione turrita dove era stata rinchiusa dal carceriere nazifascita?

Evento meraviglioso per la bella prigioniera appena liberata, certamente. Ma non mi sembra  qualcosa da esaltare negli anni a venire e da indicare ai posteri,  ai nostri figli/nipoti, come esempio e collante di dignità/forza/unità di una Nazione.

Prima, come si dice oggi, occorre la full disclosure.

La mia famiglia, tutti e 4 i rami,  erano media borghesia agricola e qualche fabbrichetta. Ovviamente non erano contenti della piega rossa che stava prendendo l’Italia e nel 22 entrambi i nonni si aggregarono  alla scampagnata del 28 ottobre. Di uno ho prove certe, su l’altro c’è sempre stato il sospetto che fino a Roma non arrivò mai. Nel ventennio, secondo le nostre migliori tradizioni,  i “marciatori” erano diventati milioni come del resto adesso i “partigiani” sono milioni.

Le cose per diversi anni andarono bene. Tutti in famiglia fascisti convinti. Alcuni dei progenitori servirono anche  direttamente il Regime: podestà, capo di gabinetto etc.  C’era solo una prozia, Maria, sorella minore di un nonno e poi rimasta zitella, professoressa di lettere, che fu socialista/femminista della prima ora. Passò qualche anno in “esilio” a Ginevra/Parigi ma, secondo i miei zii/nonni più per seguire qualche amore giovanile, forse Nenni, di cui dicevano fosse follemente innamorata. Ricordo le estenuanti discussioni al desco familiare durante le feste tra nonni/zii: Destra vs. Socialismo,  Federzoni vs. Nenni,  Einaudi vs. Croce e Gramsci. Ma, arrivati al dolce, anche la zia Maria di solito ammetteva che dal Fascismo poi non ebbe rogna alcuna, anche professandosi, come lei, apertamente PSI. Insegnò tranquillamente lettere per anni in un  Regio Liceo. Per carità, era una persona di un garbo e bontà infinita e probabilmente l’OVRA  non aveva tempo da perdere. Come invece quelli di oggi che inseguono i passeggiatori di cane sulle spiagge.

I problemi di fedeltà al Fascismo arrivarono con le guerre di Etiopia e di Spagna. Soprattutto con le sanzioni. Le fabbrichette vivevano molto di export, soprattutto Francia e UK, e i progenitori furono costretti a chiudere qualcosa. Fu anche aperta una fabbrichetta in Francia, ma lo sciovinismo francese nei confronti degli italiani, vivo e vegeto anche allora, rese il business molto difficile per  bisnonno e nonno. Era piaciuto molto il fascismo prima maniera, nazionalista ed anarco-capitalista, molto meno la mutazione, dopo il 1929, in un regime sempre più atto a promuovere una dottrina economica corporativista, statalista ed autarchica. Poi arrivarono anche l’oro ed il ferro alla patria e fedi nuziali e belle cancellate in ferro battuto sparirono per il Bene Comune.

Il 10 giugno, il giorno delle fatidiche decisioni, delle dieci milioni di baionette che dichiarano guerra alle plutocrazie anglo-giudaiche, qualche forte sospetto sulla nostra solidità economica e militare già c’era. Eccome se c’era! Un mio zio, alunno in un noto Collegio di Regime, era in camerata con un capo-balilla di cognome Ciotti, che immagino i meno giovani ricordino bene. Il mitico Sandro, che nessuno potrà mai accusare di simpatie a sinistra o simpatie giallorosse. Sembra, a detta di mio zio, a discorso del Duce  terminato e porta della camerata ben chiusa, che il mitico Ciotti – con la sua già  rauca voce – eslamò: “questo è annato, mo’ si che son cazzi amari !”. E molti degli avanguardisti in camerata annuirono.

Il 25 luglio e l’8 settembre si riassumono in quattro parole e sono prodromi per capire il 25 aprile: si salvi chi può! Si salvi chi può!   Specialmente per mio padre, suoi fratelli e cugini vari nati tra il 18 e il 26. Chi andò in alta montagna bergamasca, chi trovò lavoro in ditte che drizzavano muretti (molto lentamente) per la Todt, chi si unì alle sparute ed impaurite brigate del Partito d’Azione, chi si rinchiuse nel fienile di uno sperduto casolare aspettando gli alleati. Solo un cugino di mio padre, ufficiale di Accademia,  che aveva prestato solenne giuramento nel Regio Esercito, tornato vivo dal Don, non contento partì volontario  con il Battaglione Barbarigo e a Nettuno quasi ci lasciò le penne. Tornato salvo a La Spezia, raccontava di avere ascoltato un bellissimo discorso del Principe Borghese, comandante della Decima, in cui comunicò agli ufficiali che erano liberi di seguire la loro coscienza. La sua coscienza non se la sentì di continuare sparando su altri italiani e finì nominato capo militare – era l’unico con bel background di artiglieria e polvere pirica – in una delle tante sgangherate Brigate Garibaldi delle montagne liguri. Scelse una delle Garibaldi, lui assolutamente anti-comunista, credo solo perché quella più comoda, quella meno lontana da casa. In dieci mesi di accesa guerriglia (secondo la vulgata della sinistra) – raccontava – solo una volta  cercarono di fare un buco con dell’esplosivo in una strada di transito, con poco successo, e razziarono un casolare dove credo crucchi e fascisti tenessero le mucche e il formaggio.

Insomma il punto storico è che il contributo militare apportato dalle truppe partigiane – chiamiamole pure truppe – fu quasi zero. Se non fossero arrivati Clark e Alexander………

E punto ancora più importante è che la massima parte dei giovani che si unirono alle truppe partigiane, giovani di tutti i colori politici, lo fecero – giustamente aggiungo io – quasi unicamente con la prospettiva di salvare la pelle, non certo di continuare a combattere, nel casino che era l’Italia del 1944-45.  I veri combattenti per la Liberazione, quelli che rischiarono veramente qualcosa cercando di sabotare le attività belliche tedesche, furono una sparutissima minoranza. I partigiani uscirono dai nascondigli – e fecero benissimo a stare nascosti, aggiungo io – solo quando ormai i tedeschi se ne erano andati e si udivano cornamusa scozzesi e yankee doodle dandy in lontananza.

Quando scesero dalle montagne, forse in troppi  fecero quello che Gianpaolo Pansa (uomo di sinistra ma grande e coraggioso storico) ha descritto fin troppo bene nei suoi libri. Che tutti dovrebbero leggere. Anche qui avrei diverse testimonianze dirette, ma è un altro post.

Alla luce di quanto sopra, da ciò che mi hanno raccontato, di cosa ci sia di eroico da celebrare, per noi italiani,  il 25 aprile, continua veramente ad essere un mistero per il sottoscritto. Specialmente nel 2020. 

Poi i partigiani – nel dopoguerra – da qualche pugno di uomini che forse veramente rischiarono la vita per combattere le forze nazi-fasciste… sono diventati i milioni di eroi che liberarono il Paese! Anche mio padre faceva parte di un gruppo partigiano (molto prudente) di retroguardia, quando scesero dalla montagna si avventurarono in città solo quando erano ben sicuri di trovarci le jeep yankee, ma erano tecnicamente eroi partigiani con tanto di fazzoletto rosso attorno al collo. Quando lo raccontava, quando raccontava di quel fazzoletto rosso accanto alla jeep americana, gli veniva quasi da ridere.

C’è poi, con il 25 aprile,  il business della commemorazione degli eccidi, quasi come i pellegrinaggi di gruppo ai santuari.  Il 25 aprile, quando per qualche anno frequentavo le scuole a Roma, ero rigorosamente trascinato assieme ad innumerevoli altre scolaresche alle famose Fosse Ardeatine. Puntualmente tutti i 25 aprile per ore sotto il sole: “la barbaria nazifascita”, “i martiri della resistenza” e altri blahablahe blahblah…

Poi anni dopo, ero molto più grande, un giorno eravamo a Roma ed accompagnai mio padre a visitare  due tombe di cui non sapevo nulla. Mio padre, mangiapreti, che andava a portare un fiore su una tomba! Erano le tombe di un giovanotto che mi sembra si chiamasse Giorgio, un suo grande amico universitario, e di un suo professore universitario, credo di matematica. Giorgio, che lui conosceva bene, non era assolutamente un partigiano, forse solo membro del PdA. Si trovavano nelle carceri per qualche colpa e il professore forse solo perché ebreo. Ne parlammo: venne fuori che mio padre – che di fascista non aveva proprio nulla – considerava i veri assassini, di Giorgio e del professore, i partigiani dinamitardi di via Rasella. Gente alla quale furono poi date medaglia e fecero carriera nel PCI. Uno addirittura credo divenne parlamentare. I Partigiani Comunisti conoscevano benissimo le regole promulgate dai tedeschi per le rappresaglie di guerra, ma attaccarono lo stesso con una bomba truppe del reggimento Bozen (reclute altoatesine) in via Rasella. Attaccarono la pattuglia di polizia senza alcun valore militare in pieno centro di Roma, città aperta. Morirono anche due civili italiani che passavano per caso in via Rasella. Erano stati loro, i GAP comunisti senza volto, secondo mio padre, i maggiori colpevoli della morte del suo grande amico Giorgio e del suo professore di matematica, entrambi fucilati per rappresaglia di guerra alle Fosse Ardeatine.

In conclusione a me sembra che ci sia ben poco da festeggiare il 25 Aprile. Una data che continua solo a dividere gli italiani e continuerà solo a dividerci. Di divisioni in questo momento ne abbiamo fin troppe, senza dovere riesumare quelle vecchie di 70 anni.  Celebrare il 25 aprile è un po’ come se gli americani celebrassero ancora la battaglia di Gettysburg, la vittoria del Nord conto il Sud.

La festa del 25 aprile andrebbe abolita.
Abbiamo già il 2 Giugno e fino a qualche anno fa si celebrava il 4 Novembre. Secondo me, celebrare Vittorio Veneto era una buona cosa. L’unica data in cui la nostra Italietta Unita, dopo una lotta sanguinosa con centinaia di migliaia di caduti da tutti i comuni della penisola, riuscì a vincere finalmente una guerra (c’era stata anche quella Italo-Turca del 1911) ed a riunire  terre storicamente italiane. 

I soliti noti direbbero che celebrare Vittorio Veneto è antistorico, che celebrare la carneficina europea della prima guerra mondiale è da barbari sanguinari. Forse anche con qualche ragione. Io risponderei loro che i popoli e le nazioni si fanno/uniscono veramente solo col sangue, piaccia o non piaccia… ma questo è un altro articolo.

E se invece celebrassimo tutti assieme il 7 ottobre, data della battaglia di Lepanto, come festa di unificazione nazionale? Anche allora arrivarono navi, marinai ed ammiragli da tutta Italia e la penisola fu salvata da coloro che venivano dalle terre di Allah. Sono sicuro che Zaia e Salvini sarebbero d’accordo. BY Svicolone61