La questione dei microchip è tornata attuale ‒ ma forse non ha mai, realmente, cessato di esserlo ‒ durante il 2020: il rallentamento della produzione che ha colpito l’emisfero orientale del mondo ha generato una crisi di disponibilità sul mercato di questi componenti senza precedenti. Tanto da aver fatto parlare di chipageddon1.
Ciò è accaduto, a ben vedere, proprio in virtù del fatto che alcune nazioni (quelle del Sud Est asiatico, soprattutto) potessero vantare, ormai, dal punto di vista globale, un vero e proprio primato delle aziende che lavoravano e che lavorano i cosiddetti semiconduttori.
Si tratta di un bene tutto sommato basico: un piccolo pezzo di silicio ‒ la cui industria ha una filiera che necessita di altre materie prime come il nickel, il gallio, l’indio, il venadio, il litio, la grafite e il cobalto ‒ dove vengono stampati circuiti molto complessi in grado di rendere possibile a computer e non solo di effettuare elaborazioni molto sofisticate in modo veloce e automatico.
Tanto per fare un esempio, i semiconduttori servono alle Tesla per rendere possibili tutta una serie di operazioni avanzate che consentono ormai la guida semi automatica del veicolo, e lo stesso ormai vale per aerei, navi ma anche per smartphone, tablet, device di Internet of Things (IOT), macchine per il caffè o lavatrici.
Di fatto, l’informatizzazione dei componenti che fanno parte ‒ e sono dati ormai per scontati ‒ della vita quotidiana di miliardi di persone in tutto il mondo passa per le fabbriche di semiconduttori. Se questa produzione si ferma, in altre parole, si alzano i prezzi di tutti questi oggetti e si rischia di non avere più scorte per le esigenze del mercato.
Il fatto che a monte di questa filiera le aziende siano per lo più concentrate in una zona del villaggio globale crea un potenziale problema che con la crisi sanitaria si è concretizzato: si blocca non solo la produzione di semiconduttori e di microchip, ma anche quella delle aziende che realizzano beni di largo consumo che non possono prescindere da essi.
Il tutto crea uno shock internazionale frutto di una asimmetria di mercato che diventa anche geopolitica di rilevanza per la politica economica internazionale: i Paesi che dipendono da quelli produttori di microchip si trovano in una condizione di subalternità in quanto, impiantare la produzione di tali beni non è un processo rapido e istantaneo. E nemmeno, come dire, economicamente sostenibile per un imprenditore che non sia supportato da interventi di Stato per l’apertura di stabilimenti e nella ricerca di talenti in grado di essere messi sotto contratto.
L’attuale crisi dell’offerta di chip, esacerbata dal coronavirus, conferma infatti le sfide politiche e di sicurezza che gli Stati possono affrontare quando le risorse scarseggiano e quando i principali siti di produzione di chip sono al centro di controversie geopolitiche.
Gli enormi squilibri di mercato causati dalla pandemia hanno confermato quanto sia soggetta a crisi l’industria dei semiconduttori proprio perché a differenza di altri assets, l’impostazione dell’intero processo di sviluppo e produzione del chip richiede anni: non solo il design del chip deve essere pianificato attentamente, ma anche gli impianti di produzione ad esso destinati devono esserlo. Inoltre, durante questo processo è sempre necessario anticipare lo sviluppo tecnologico futuro.
Essendo quindi materie prime dello sviluppo tecnologico, semiconduttori e microchip rappresentano «componenti essenziali per lo sviluppo manifatturiero di dispositivi digitali» il che rende «la distribuzione geografica delle cosiddette terre rare rappresenta una questione centrale nelle dinamiche geopolitiche»2.
Inoltre, le aziende del settore dei chip potrebbero dover tenere conto dei fattori geopolitici e degli effetti dei cambiamenti climatici nella scelta dell’ubicazione dei siti.
Le restrizioni commerciali motivate politicamente rappresentano un rischio per destabilizzare ulteriormente le catene di approvvigionamento e possono causare incertezza per le aziende coinvolte.
D’altra parte, la corsa alla superiorità tecnologica va di pari passo con l’aumento della politica industriale: Cina, Giappone, Corea del Sud, Stati Uniti, Taiwan e, più recentemente, l’Unione Europea (UE) stanno tutti lanciando regimi di sussidi del valore di miliardi di dollari per attirare i produttori di chip leader a livello mondiale a creare il prossimo sito di produzione sul loro territorio.
Per quanto possa essere allettante per i Paesi coinvolti, la costruzione di un sito di produzione all’avanguardia può rivelarsi per soddisfare richieste di prestigio, ma non necessariamente industriali, motivate (geo)politicamente3.
Un esempio su tutti è rappresentato dalla crisi geopolitica che ha vissuto l’Afghanistan nell’estate 2021 con il ritorno al potere dei “Talebani”: un evento così diverso rispetto al tema trattato e considerato non deve trarre in inganno. Infatti, oltre ad avere da sempre una posizione geopolitica di importanza fondamentale per la “Via della Seta” e gli equilibri della regione, l’Afghanistan è al contempo un territorio ricco di materie prime utili per la produzione di microchip4.
Lo conferma il fatto che «secondo rapporti governativi statunitensi, l’Afghanistan possiede riserve minerarie e […] terre rare utili alla produzione di microchip essenziali per il funzionamento di dispositivi digitali»5.
Ciò ha avuto conseguenze dirette anche sulla politica dell’area con l’avanzata dei Talebani che non è certo stata seguita con pregiudiziali religiose o morali da parte di Pechino: l’affermazione o meglio il ritorno dei Talebani in Afghanistan, infatti, ha rappresentato «un forte vantaggio per la Cina nell’accesso alle risorse del sottosuolo afgano con potenziali ripercussioni a favore delle aziende cinesi nella catena produttiva dei microchip»6.
Non sorprende, dunque, che dopo il ritiro delle truppe statunitensi il Paese sia diventato subito oggetto di attenzione della Cina impegnata in una vera e propria «competizione tecnologica con gli USA»7 da diversi anni.
Il meccanismo, piuttosto complesso, sul quale si è sviluppata questa competizione è rinvenibile nel complesso scacchiere internazionale della geopolitica del Terzo millennio: molto spesso i microchip sono progettati da un Paese ma realizzati altrove.
E non solo in un’altra nazione come avviene, secondo le regole della delocalizzazione, con le scarpe da ginnastica o altri beni finiti che possono essere lavorati, assemblati e spediti da una parte all’altra del globo grazie all’international shipping.
Se il progetto di un nuovo chip, ad esempio realizzato in Silicon Valley da Apple, viene completato, poi «a progetto concluso, si procede con l’invio del disegno in Giappone, il Paese deputato alla realizzazione tecnica dei materiali necessari alla creazione del chip. Una volta estratti i lingotti di materiale tecnico, il Giappone provvede a inviarli nuovamente agli USA, che si premureranno di ricavare da essi i cd. “wafer” semiconduttori. Ciascun wafer viaggia, in realtà, per diverse parti del mondo: Cina, Malesia, Sud-Est Asiatico, Indonesia, etc. per poi rientrare negli USA»8.
Il che, ha scatenato, soprattutto durante la Presidenza Trump la guerra dei dazi che non a caso è stata connotata come la “Trade War”: ciò conferma l’assoluta rilevanza geopolitica di un bene, quello dei microchip, molto più importante di quanto non si possa ritenere nelle strategie dei vari Stati che trascendono i confini stessi della politica e dell’economia per tirare in ballo altri aspetti non meno fondamentali.
Come è stato giustamente sottolineato dallo storico Eric John Ernest Hobsbawm le potenze militari sono al contempo potenze economiche cercando di essere, al contempo, leader nell’ambito tecnologico9.
Quindi, di conseguenza, sono le tecnologie a svolgere un ruolo fondante «tanto ai fini della competitività economica. Quanto ai fini della competizione politica e militare. Nella geopolitica internazionale, obiettivo principale di ogni nazione è sviluppare al proprio interno rilevanti agglomerazioni produttive centrali sul piano tecnologico e strategico, in comparti industriali di punta e nei settori tecnologici di frontiera»10.
A maggior ragione del valore anche economico-finanziario che la partita geopolitica che si sta giocando sul campo dei semiconduttori riveste: si parla, secondo le stime di Bloomberg, di circa 500 miliardi.
Che, in considerazione e a conferma di quanto precedentemente analizzato, risultano asimmetricamente distribuiti visto che nel villaggio globale il 70% di questo valore è detenuto dalle due più grandi aziende di produzione di semiconduttori: la Samsung e la TSMC. Coreana (del Sud) la prima e di Taiwan la seconda.
Un problema per la Cina ‒ da qui l’interesse geopolitico per Taiwan ‒ e per gli USA in quanto «è vero che colossi americani come Intel producono circuiti integrati, ma il Covid-19 ha messo al centro la necessità da parte dell’Occidente di produrre chip anche di fascia bassa e soprattutto quella di avere un accesso alla produzione di terre rare, i cui giacimenti sono principalmente in Cina (41%) e in Africa (30%), secondo un report pubblicato dalla Commissione europea»11.
Aspetti che non esauriscono la portata strategicamente fondante della partita sui microchip che Cina, Usa ‒ e anche in parte l’Europa ‒ stanno giocando. Vi è, infatti, anche l’aspetto inerente al climate change che va tenuto conto: la necessità di ridurre le emissioni di gas serra ha portato a nuove forme di mobilità, case e reti intelligenti e alla decarbonizzazione delle fonti energetiche.
I chip sono necessari per questa trasformazione in quanto consentono funzioni di controllo e sterzo essenziali: una persistente scarsità di chip può rallentare la transizione energetica.
Inoltre, il cambiamento climatico sta colpendo sempre di più le principali sedi di produzione. Ad esempio, ne è stata colpita la TSMC di Taiwan dove il Paese sta vivendo periodi cronici di siccità. Ciò ha un impatto non solo sull’approvvigionamento idrico generale dei siti di produzione di chip, ma anche sulla sua alimentazione alimentata da energia idroelettrica. Al contempo, in Texas, nel 2022 un’insolita tempesta invernale ha causato un’interruzione di corrente con la conseguente chiusura totale della produzione nei siti di produzione di semiconduttori.
Tali interruzioni di corrente pesano molto, poiché il processo di produzione dei chip deve avvenire in camere bianche con temperatura stabile e aria pura. Interruzioni di qualsiasi tipo rendono il prodotto inutilizzabile.
Dopo una tale interruzione nel processo di produzione, l’aumento delle capacità in questo settore complesso è questione di settimane, non di giorni. Inoltre, la recente carenza di approvvigionamento energetico della Cina ha comportato una diminuzione delle capacità nell’estrazione di materie prime.
Come quindi è stato giustamente evidenziato, «la correlazione tra terre rare, microchip, e automotive sembra dunque manifestare nuovamente la sua esistenza, mostrando i vari punti di contatto che vi sono tra il settore produttivo tecnologico e l’andamento delle scelte dei consumatori e, forse, sarebbe più corretto dire dell’economia»12.
- 1 M. Morris, What does chipageddon have to do with climate change?, in «ABC News», del 6 maggio 2021.
- 2 AA.VV., I microchip sono un ingranaggio geopolitico. Le azioni del governo italiano, in «Formiche», del 26 luglio 2021.
- 3 J. Kamasa, Chip Shortages in the Light of Geopolitics and Climate Change, in «Center for Strategic & International Studies», del 9 febbraio 2022.
- 4 J. Horowitz, The Taliban are sitting on $1 trillion worth of minerals the world desperately needs, in «CNN Business», del 19 agosto 2021.
- 5 R. Nanni, La Geopolitica dei Microchip nei rapporti tra Cina e Afghanistan, cit.
- 6 Ibidem.
- 7 R. Nanni, M. Patriarca, R. Ventura, A. Vesprini, Geopolitical Brief #29 – Geopolitica dei microchip Tra tecnologia, terre rare e supply chain, ora in https://www.geopolitica.info/prodotto/geopolitical-brief-29-geopolitica-dei-microchip-tra-tecnologia-terre-rare-e-supply-chain/.
- 8 G. Tirozzi, Cybertech e la questione geopolitica dei microchip, in «BitCorp», del 15 dicembre 2021.
- 9 E.J. Hobsbawn, Il Secolo Breve, Milano, Rizzoli, 2011.
- 10 A. Russo, Economia politica internazionale. Potere, sviluppo e tecnologia nell’era globale, Milano, Mondadori, 2018, p. 232.
- 11 A. Ròciola, Perché i microchip sono così importanti. Origini e cause della crisi globale, in «AGI», del 14 aprile 2021.
- 12 G. Tirozzi, Cybertech e la questione geopolitica dei microchip, cit.