di lorenzo merlo ekarrrt – 280424
Non ci sarà altro destino da quello infernale, che quotidianamente ci accompagna, finché la bellezza resterà fuori dal centro delle azioni. È finché resterà fuori, il brutto e il male seguiteranno a contagiare i pensieri e lo spirito degli uomini. Considerare un dovere sociale tenere al centro il razionale, il tecnologico, l’economico e l’interesse personale, è il compimento del brutto in quanto affermazione babelica, separazione dall’origine, esaltazione di sé.
Qualche considerazione sulla bellezza e i limiti della conoscenza cognitiva.
“Ogni lingua lineare è però una lingua logica; in altri termini, agisce, per così dire, in una dimensione e si blocca dinanzi al confine di più dimensioni”
Armïn Mohler, La rivoluzione conservatrice in Germania, 1918-1932: Una guida, Napoli-Firenze, Akropolis/La Roccia di Erec, 1990, pp. 96-97.
Il modo estetico
La bellezza quando è solo una parola, riferisce di una categoria nella quale abbiamo posto qualcosa o qualcuno. Quando è invece una vibrazione reifica un universo in cui le relazioni sono regolate prioritariamente dall’energia estetica, dal modo estetico di concepire, intendere il mondo, il prossimo, la realtà. La modalità estetica risiede nel pre-pensiero. Il pensiero organizzato, interessato e politico la deturpano.
Diversamente dalla modalità etica – suo opposto energetico – intenta ad affermare un ordine nelle relazioni, nella realtà e nel mondo, quindi rappresentabile dalla geometria piana, dalla fisica classica e dall’informatica, quella estetica ha un carattere fluttuante, risente di tutto e ha il pregio di condurci a noi stessi a farci riconoscere la nostra vera natura, sempre imbrattata e nascosta da strati di nozioni etiche e dei suoi saperi analitici.
La cultura materialista in cui siamo immersi, tende ad allontanarci dal senso della vita riducendolo al senso del successo. Un territorio in cui la bellezza è ridotta alla parola che allude al bello, ma non contiene il bene, e a uomini senza bellezza, ma pieni di individualistica vanità, tanto che si è separata la bellezza dal bene, credendo di fare scissione innocua. Una separazione tanto profonda che li porta a deridere certe conclusioni. Del resto, come ci racconta Lao Tsu, quando lo stolto sente parlare per la prima volta del Tao scoppia a ridere.
Nel caso etico siamo spinti a eleggere gli uomini a proprietari del mondo e di se stessi. In quello estetico diviene possibile conoscere attraverso il sentire, la liberazione dal conosciuto e la corrispondenza con il cosmo.
L’etico produce norme. L’estetico poesie.
L’etico amministra l’esistente. L’estetico ricrea.
L’etico segue canali ereditati. L’estetico ascolta il mondo.
Il primo usa la matematica, la statistica, gli algoritmi. Il secondo utilizza il terzo occhio.
Uno ritiene che la conoscenza sia da acquisire, l’altro che è già in noi.
L’etico è entro una capsula impermeabile se non dalla norma. L’epidermide dell’estetico è sottile e vibrante come una vibrissa.
Ideologie e relativi dogmi, differenze e separazioni sono il basamento dell’incastellatura etica. L’identicità degli uomini, la maschera delle forme, e ritenere tutto espressione della vita, lo sono per la prospettiva estetica.
Per l’etico esiste l’eretico. Per l’estetico non esiste eresia, neppure quella etica.
I computatori della vita sono meno inclini a sfruttare le informazioni su se stessi fornite dalle emozioni. Sono più stabili ed equilibrati, ma impediti a cambiare sembianze, a divenire altro da sé, a sfruttare la contemplazione per conoscere e la meditazione come medicina. A vedere e muoversi secondo bellezza, non è per loro previsto.
Agli esseri estetici è come se piacesse il rischio. Puntare tutto sulla bellezza richiede fanciullezza, sconsideratezza, inconsapevolezza delle conseguenze e fede. Visti con ottica etica, sembrano coraggiosi e avventati. Al contrario, quelli etici, visti con ottica estetica, che si muovono con accortezza, non sono che pusillanimi. Un po’ come per i materialisti che non sospettano neppure che i loro attrezzi non servono per lavorare al banco alchemico, l’uomo etico, logico, razionalista, concreto, non ha modo di concepire il mondo se non nella sua espressione storica. A lui piace fermarsi al dito. Della luna non sa che farsene. Concentrato sui particolari da mettere e tenere in ordine non la vede.
La bellezza è anche una modalità di ricerca e una discriminante. Essa si rivela ascoltando, seppur nascosta da sembianze che non la evidenziano. Quando la bellezza accade, quando è centrale nelle relazioni, si realizza quella realtà estatica sempre cercata. La sola che conta, in quanto la sola in grado di dare senso alla vita, in quanto benessere intimo e relazionale, in quanto premessa necessaria alla benevolenza e alla gratitudine incondizionata.
Il senso della vita concepito, soddisfatto ed esaurito in ambito etico-amministrativo, allude a titoli, denari, dialettica, saperi cognitivi, vita regolata dal diritto e dimenticata dalla natura, cultura intellettual-tecnicistica.
Differenze formali di senso, ciò che conta riguarda la compagnia del baratro nero, che accompagna la modalità etica. Un abisso in cui il rischio di cadere corrisponde alla presa di coscienza di avere dedicato l’attenzione a confondere le autoreferenziali infrastrutture per verità.
Essere coinvolti in una caduta della bellezza nella relazione, ossia al tradimento spirituale, arresta i processi vitali-creativi. Essere forzatamente sottratti dalla bellezza è un’esperienza grave, un crollo emozionale. È quanto accade nella prevaricazione della norma, della sua limitatezza, nel campo libero e infinito dell’amore.
Ma le cose si muovono, i ruoli si invertono. Tendiamo a passare da una affermazione al suo opposto, e a tutti i grigi intermedi, in funzione di esigenze e circostanze più forti dei nostri valori e della nostra disciplina e stabilità. Nessun uomo è un tipo puro, e chi lo è più degli altri è tanto più specialisticamente forte, quanto più olisticamente vulnerabile se opportunamente toccato. Anche se – in senso lato – il nostro segno zodiacale e ascendente ci spingeranno sempre verso la loro concezione delle cose, tutti corrispondiamo alla verità dell’yin e yang, ovvero in ognuno c’è parte dell’altro. L’opposto che fuggiamo è il primo generatore di quanto desideriamo essere.
Secondo bellezza
Il bello è tale in quanto ci muove. Esso allude all’eros, all’energia vitale, tendenzialmente fievole nel replicativo burocrate ed effervescente nel creativo sentire. Esso è simbolo sublimante e tocca il profondo dell’umano, fino all’origine, fino all’archetipo comune e condiviso. Anche per questa sua abissale e inestinguibile dimora, esso risulta sostanzialmente inspiegabile dalla modalità espressiva della dialettica logico-razionale.
Il bello avviene, ed è percepito in noi. Ciò lo rende inequivocabilmente vero, mai accompagnato dall’esigenza di una qualsivoglia egida scientifica. Esso accade quando qualcuno o qualcosa è pertinente a qualche nostra esigenza di completezza. Questa può essere occulta a noi stessi o evidente. Dipende dal gradiente di consapevolezza disponibile su noi stessi e nel momento.
L’esplosione del senso di bellezza ci avverte con un’emozione magnetica nei confronti della parte mancante e risucchiante, totalitaria, e più forte di quella di fondo che corrisponde alla cosiddetta identità di noi stessi. All’opposto, il brutto ci informa di cosa ci disturba.
Avvedersi quindi del valore dell’unità negli opposti è liberarsi di un laccio della catena di forza culturale che ci impone pensieri e azioni moralistiche ed egoistiche che nulla hanno a che fare con noi stessi, che tutto hanno a che vedere con modelli a noi esterni. E che mai divengono scuola evolutiva ma, al contrario, ci trattengono nello status quo dominato da quanto i cattolici chiamano vizi capitali, ovvero, sempre secondo questi, fuori dalla grazia di Dio.
È opportuno considerare che il bello ci rapisce in quanto emozione di beatitudine, sospensione della storia e del pensiero, e dissoluzione dell’io separatore, almeno nei confronti dell’oggetto risonante, quindi paradisiaca, estatica.
Nel tempo della sua durata avvertiamo benessere, la storia che ci circonda si obnubila silente, il pensiero cessa di rutilare, l’unione con l’oggetto risonante, sia esso un’idea creativa, una persona, una forma, eccetera, si compie, tanto da avvertire il diritto di esclusività e proprietà/appartenenza. In quel tempo, istantaneo come nell’eureka di una scoperta, nella presa di coscienza, nel momento della visione e dell’avvento della composizione della costellazione concettuale rivelatrice di un nuovo – per noi – orizzonte del mondo e, per eccellenza, nell’orgasmo; oppure perdurante come nell’innamoramento, nella serenità dell’amore incondizionato, nel sentimento materno, le pene e la loro memoria si scompongono nell’oceano estatico, che i cattolici chiamerebbero paradisiaco o, ancora, grazia di Dio.
È necessario osservare che nel bello è implicito il bene. I concetti di estasi e di paradiso non sarebbero altro che grossolane rappresentazioni di richiami alla migliore condizione di vita. Che va dalla salute, ai buoni sentimenti e alla miglior disponibilità di forza per la gestione degli inconvenienti della vita, nonché alla miglior disponibilità nei confronti dell’autoeducazione alla migliore invulnerabilità. Un corso evolutivo che tende a realizzarsi in modo proporzionale alla decrescita di importanza personale e ai comportamenti dettati da questa e dal suo implicito motto orgoglioso. E, viceversa, proporzionalmente alla disponibilità fenomenologica, ovvero alla spersonalizzazione egoica degli eventi. (Un culmine culturale questo, che permetterebbe di gettare nel fuoco le fandonie politiche del momento, dalla cancellazione della cultura, alla libertaria scelta del genere sessuale, al politicamente corretto, al pensiero unico, alla famiglia di piacere, alla madre da mercato e alla prole da menu, alle quote rosa, al sostenibile, all’impatto zero, all’economia circolare, all’esportazione di democrazia, all’ossessione dell’inclusività, al culto tecnologico e, più ampiamente, a perpetuare la storia come storia di conflitti, dagli infrapersonali, passando da quelli interpersonali e ideologici, fino a quelli economico-geoegemonici).
La percezione di bellezza allude altresì al senso del sacro. Si può infatti osservare che il sacro che siamo disponibili a riconoscere come tale è solo e soltanto quello che ci fa avvertire l’emozione della corrispondenza e dell’appartenenza. In questo modo, perfino la squadra del cuore è sacra.
Nel senso del sacro è presente un’estensione di noi stessi, come è sostanzialmente concepita infatti qualunque nostra funzionale parte del corpo o dell’immagine della nostra identità. Quale pianista è disposto a sacrificare un mignolo? Chi è disposto a svelare frivolarmente i propri scheletri nell’armadio? Ma sarebbe sufficiente chiedersi quale uomo lo sarebbe se non per qualcosa di ulteriormente sacro, per esempio un figlio – a sua volta nostra estensione – una fede o un giuramento.
Secondo bruttezza
Specularmente al bello che implica il bene, il brutto è simbolo del male. Da non intendere in senso moralistico ma energetico-evolutivo. Secondo questa concezione si può riconoscere l’origine e il destino dell’idea che l’uomo sia sulla terra per riunirsi all’origine. Non solo, ma anche che il suo operare etico ha valore solo e soltanto se compiuto attraverso la consapevolezza che ognuno di noi è identico ovvero,con la consapevolezza che le differenze storico-biografiche sono spiritualmente solo formali e circostanziali, che operare per sé non ha alcun potere sottile nei confronti dell’evoluzione dell’umanità, nei confronti del superamento della gogna materialista.
“La filosofia critica di Nietzsche porta dunque a compimento l’impresa «semi-abortita» di Kant: anche la ragion pratica, così come la ragion pura, non è in grado, per propria essenza, di offrire una risposta alle «domande ultime»; tutti i giudizi di valore, tutte le «morali», tutte le «verità» sono relative, non hanno alcun diritto «razionale» all’assolutezza, a una validità universale. Ciò che qui viene però «storicamente» annientato è appunto la «Ragione», in quanto logos assolutizzato, della tradizione occidentale giudeo-cristiana”.
Giorgio Locchi, Sul senso della storia, Padova, Ar, 2016, p. 29.
Non è quindi improprio riconoscere in che termini il brutto rappresenti ed esprima il lato oscuro che insorge in noi, come uno stupro del mondo ideale anelato, come ci spettasse di diritto individuale. Una fantomatica meta se superstiziosa pretesa egoica, ma utopia concretizzabile quando esso è già nella nostra visione. Progetto fallimentare se acquisito per legge numerata o moralistica, ma di successo se ricreato da noi stessi. Nessun tavolo esce dalle nostre mani se di esso non abbiamo un’idea. E nessun tavolo è il nostro tavolo, se l’idea da cui proviene è stata prima di altri. La forza di volontà necessaria ad ogni creazione, non riferisce un dovere ma un sentire, senza il quale non è che un braccio di ferro perdente, contro forze profonde e superiori a quelle egoiche e superficiali.
È così che il brutto implica l’inferno. Ovvero quella condizione senza fuga dai tiranni, da ciò che non abbiamo risolto, dalle evoluzioni che non abbiamo percorso. Il brutto è ciò che non vogliamo, ciò che fuggiamo di noi, ciò che sosteniamo non ci rappresenta. È il pus delle nostre infezioni, di quanto non siamo stati capaci di accettare di noi, dell’ottusa volontà di affermare di essere altro, di ferite tenute aperte dal rancore e dal desiderio di vendetta. L’assedio del brutto è, infine, l’assenza del processo di individuazione, ma la latente presenza del thanatos e della prosa della vita, in sostituzione del formicolare dell’eros, che ne è invece, la lirica.
L’esperienza non è trasmissibile
La bellezza, come tutte le esperienze, non è logico-razionalmente trasmissibile. Essa corre su ponti emozionali, gli stessi dei nostri passi evolutivi, in occasione dei quali avvertiamo la conoscenza del Sé.
La gabbia logico-razionale che ci contiene a causa della nostra inconsapevolezza di essa, è a sua volta un’emozione, ovvero una capsula biografico-autoreferenziale con la quale concepiamo il mondo. Con essa, ci dicono gli esperti, possiamo spegnere d’un colpo dilemmi e incertezze. Vivendo al suo interno, siamo inconsapevolmente ma scientisticamente certi, che a mezzo della dialettica, dell’erudizione e dell’eloquenza, possiamo tramettere l’esperienza. Se così fosse, saremmo saggi da millenni, o potremmo imparare a sciare dopo l’opportuna spiegazione. Per niente! Ricreare è necessario.
L’impressione della trasmissibilità dell’esperienza appare dura da dissolvere soprattutto perché estranei alle dinamiche della comunicazione. Essa pare realizzarsi quando gli interlocutori dispongono di pari esperienza, utilizzano il medesimo linguaggio, conoscono e impiegano le stesse accezione e lo stesso gergo, riconoscono in modo condiviso il significato delle allusioni, delle allegorie e delle metafore, e hanno il medesimo scopo. Allora avviene la comunicazione ma non la trasmissione di esperienza. Al contrario quando quei requisiti mancano, anche uno soltanto, anche la comunicazione non avviene e il suo posto è preso dall’equivoco. Da certa letteratura esoterica prendiamo la formula che siamo universi diversi. Questa allude che i vissuti delle persone possono facilmente impedire la comunicazione.
Secondo logica
Così come l’indagine analitico-logico-razionale-meccanicista-positivista non può che ricamare dialettiche intorno al concetto di bellezza, senza mai coglierne il cuore, è invece la lettura esoterico-filosofica, evincibile dalla fisica quantistica – e da tutte le tradizioni sapienziali del mondo – a evidenziare e permettere la consapevolezza dei limiti degli strumenti a disposizione sul banco dell’officina materialista. Cioè la loro inettitudine, a maneggiare le cose del discorso estetico-vibrazionale, quali sono la conoscenza emozionale, la natura della cosiddetta magia, il flusso energetico informazionale dell’oracolo e quello del miracolo. Ovvero il potere delle parole e il suo grimaldello dell’accredito o, la verità nel discorso e il pensiero creatore. Nel complesso, tutti elementi di una prospettiva utile per riconosce che la realtà è nella relazione. Ovvero, secondo Gregory Bateson, nella mente che avviene al cospetto di qualcuno o qualcosa.
Pinze e trapani, non solo sono inadeguati a operare tra gli argomenti della conoscenza estetica, ma l’incaponimento dei suoi operatori, nel persistere ad utilizzarli e a restare nel flusso del processo logico-analitico al fine di raggiungere la conoscenza, li allontana invece di avvicinarli alla natura del mistero che, impettiti, vorrebbero svelare.
E la sindrome scientista, ovvero quella che impone di credere che la sola e vera conoscenza avvenga a mezzo della scienza, che oltre ad essa nulla è valido, e ciò che essa non riconosce, non esiste.
La realtà concepita come ente oggettivo, composto da parti che rispondono a leggi e scomponibile fin dove la tecnologia lo permette, identica per tutti, impone e deriva dall’idea di matrice cartesiana e newtoniana, illuminista e scientifico-materialista, implica un uomo ridotto a macchina, comporta una lettura e un’indagine esclusivamente appoggiata al piano logico-razionale, in quanto così ritiene di restare entro un’interpretazione impeccabile, autentica e definitiva, oggettiva appunto, con il potere di scalzare quanto a essa non è confacente. È una realtà ridotta a materia, allo stato misurabile e quantificabile. Una realtà umanisticamente mortificante, quando non alienante.
La logica non è il mondo
Ma la narrazione logico-razionale è incompleta. Lo si può osservare anche attraverso questo articolo: tutto ciò che ho espresso sarà inteso come lo intendo io? Ciò che è scritto significherà sempre qualcosa per chiunque?
Dentro la camicia di forza meccanicista, il suo linguaggio non è idoneo per raccontare la realtà che non sia quella amministrativa. Se la logica esaurisse il mondo, il bello non esisterebbe e così ogni altra emozione. Senza emozione – cioè come dalla sua etimologia – non c’è vita.
“L’immagine tridimensionale della storia, invece, è nuova, e non ha ancora plasmato un linguaggio «comune»”.
Giorgio Locchi, Sul senso della storia, Padova, Ar, 2016, p. 34.
Chiusi nell’incantesimo dell’arroganza babelico-razionalista, non ci si avvede che è la stessa domanda/ricerca primaria, a generare il mistero. La pretesa scientista di risoluzione di tutto, sospinta dal suo conosciuto cognitivo, dalle sue strutture ordinate, non è in grado di dare risposta alle questioni ontologico-esistenziali. Tuttavia ogni uomo qualunque è in grado di conoscere esteticamente ciò che anche la scienza materialista, in questi ultimi decenni, sta arrivando ad ammettere. Ovvero, l’esistenza e la verità di quanto il suo sistema di microscopi e vetrini – la cui autoreferenzialità è spesso taciuta, negata o maldestramente inconsapevole – non è in grado di spiegare.
Totalitaristicamente rapiti dall’emozione della dialettica logico-meccanicista, quale unica rivelatrice del mondo, il mistero non si svela a noi. Ed è proprio emancipandosene che possiamo esserlo il mistero, che possiamo dismettere l’insistente modalità di conoscenza cognitiva e riconoscere il potere di quella estetica. Basterebbe per riconoscere l’autoreferenzialità dell’assolutismo della logica, come del resto anche qualunque paradosso, senza neppure dover ricorrere a Kurt Gödel, per riconoscere i limiti della conoscenza attraverso la logica, dalla quale scaturisce il pericoloso – per la conoscenza e le relazioni – concetto di realtà oggettiva.
La conoscenza estetica ci relaziona al mondo con i cinque sensi materiali e con il sesto vibrazionale. Come i primi possono essere materialmente zittiti, togliendoci per esempio il sapore di un cibo, così il terzo occhio è sempre dormiente per coloro che non si sono ancora ripuliti dall’inquinamento della messe di dati della conoscenza cognitiva o superficiale. Terzo occhio, le cui informazioni divengono disponibili alla coscienza, solo dopo un’altra emancipazione, quella nei confronti dell’esperienza pregressa, delle emozioni e dei sentimenti, quali informatori/creatori della realtà.
Divenire, meglio, ritornare la vibrissa ricettiva e di conoscenza che già siamo è recuperare l’ancestrale che vive in noi e fare della vita la straordinaria esperienza di bellezza che è, normalmente, affogata in questioni che la impediscono, fino a mutarla in sofferenza e malattia. È in questo il senso di chi sostiene che siamo nati per il paradiso e viviamo nell’inferno.