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Roma, 12 marzo 2019
Essi ci guardano dalle torri. Agli ultimi piani delle torri del mondo i Prescelti si devon fare, tra una festa e l’altra, parecchi risolini. Osservare, da quelle altezze, che rendono con chiarezza cristallina l’ampiezza del panorama, il disfacimento di un’intera civiltà, dell’unica civiltà motore, il crollo dell’Occidente, in un ridicolo rovinio pulviscolare ove si aggirano pagliacci da film horror e pupazzi piene di stoffe sdrucite, dev’essere uno spettacolo impagabile. La storia degli ultimi tremila anni, le delicate architetture erette per resistere alla Notte, si trovano, d’improvviso, senza più fondamenta; la catastrofe si propaga per via esponenziale, dalla suburra al centro dei commerci, dai templi ai lupanari. Mai vista una cosa del genere; mai fu preannunciata. Uomini e donne spaesati, torpidi, disorientati, impolverati dalla farina disastrosa da ciò che credevano eterno, i volti grigi rigati da sangue e lacrime, chiedono aiuto, si suicidano, impazziscono, vanno dietro al primo imbecille che afferma di avere una via d’uscita. Per chi ha vivida in mente ciò che fu la nostra civiltà, squadernantesi nell’innediatezza davanti allo sguardo dell’anima, nei suoi modi multicolori e nelle epifanie brucianti, corrusca di carneficine e celesti asperità, tutto questo non può che gettarlo nella disperazione più totale. E quale sollievo trovare in tali giorni colmi d’angoscia?
Ariani. La trattatistica di destra si è lungamente interrogata sugli ariani, sugli indoeuropei, sulla civiltà bianca. Le risultanze sono state, a volte, interessanti, altre deliranti; spesso confuse in un misticismo d’accatto. Veda, Vedanta, Iperborei, le mistiche tre Roma. Ma l’elemento comune al genio dell’Occidente fu sempre uno e lo si ritrova, inevitabile e purissimo, nel popolo più fatale: i Greci.
Tutto ciò che si mosse prima di loro, religione, morale, legge, arte, venne risucchiato dall’orizzonte degli eventi entro quel ristretto nucleo di uomini e lì ebbe compiutezza. In Anassimandro, che ci lasciò poche righe, si riassume il prima e si preannuncia il dopo: “Principio delle cose è l’infinito … ove le cose hanno Nascimento e Morte secondo Necessità. Pagano, infatti, l’un l’altra la pena e l’espiazione dell’ingiustizia, secondo l’Ordine del Tempo”. Il Sileno riassume tale Filosofia Prima in un motto beffardo: “Meglio per te, Uomo, non essere mai nato!”.
E però l’occidentale volle vivere. Il Sapiente vive nonostante questo. Sapere la morte e vivere: questo è davvero occidentale. Questa la linea di confine, il limite che definisce. Conoscere il nulla e inoltrarsi nella vita, costruire i mezzi per vivere ancora: i simboli eterni: Dio Bellezza Valore Forza Orgoglio sono stati concepiti come opposizione all’Eterna Notte. Qui occorre sottilizzare: sapere di dover morire è conoscenza comune e volgare; vivere, invece, con la certezza della morte, della morte di tutto e, malgrado tale ferro rovente nel cuore, che mai lascia requie, contrastare il Nulla: in ciò risiede la perfetta e plastica descrizione dell’aristocrazia intellettuale dell’Occidente.
Pagliacci inglesi. Leggo che Meghan Markle, ex attricetta e ora Duchessa del Sussex, subornato convenientemente il proprio consorte minus habens, sta preparando per *l* nascitur* una nursery gender-free. La catastrofe dell’aristocrazia inglese è nell’aria da tempo. Avremo un potenziale pretendente al trono in baffetti e gonnellina di organza rosa? O una maschietta in tuta blu? E perché no. Diana Spencer fu uccisa dai servizi segreti poiché aspettava un baby anglo-musulmano! Ma mi faccia il piacere! E ora? Nessun incidente per la duchessina di Los Angeles? I complottari non capiscono nulla. Come sarà quest* bimb*? Maschia, femmino, altr*? Pervinca, verde, giallino? Né rosa né blu nella cameretta, anzitutto, poiché colori genderizzanti. Ovviamente le tinte saranno completamente naturali poiché la duchessa è pure fervente ambientalista. I doni li possiede tutti: negra, donna, ambientalista, antigenderizzante; chissà, magari vanta trascorsi da lesbica e ha pure qualche quarto di sangue proibito. Non lo escluderei. I tocchi e i ritocchi al personaggio sono un marchio di fabbrica del potere. Il potere dapprima imbonisce i gonzi con un personaggio a pois, quindi lo trasforma progressivamente, sotto gli occhi di tutti, sino a pervertirlo nell’esatto contrario, magari a strisce: il gonzo ora applaude le strisce col medesimo fervore con cui acclamava i pallini: non si è accorto di nulla. Trucchi vecchi e arrugginiti, ma con i belinoni funzionano sempre.
Le femine. Tali esperimenti nichilfuturisti non sono nuovi. Nel ducentesco Novellino se ne ritrova uno eguale. Un re segrega in una caverna il nascituro, lo alleva dieci anni e poi gli mostra tante cose belle, fra cui “le femine”.
Novella XIV. Come uno re fece nudrire un suo figliuolo dieci anni in luogo tenebroso; poi li mostrò tutte le cose, e più li piacquer le femine.
A un re nacque uno figliuolo; i savi strologi providero ch’egli stesse anni dieci, che non vedesse il sole. Allora il fece nutricare e guardare in tenebrose spelonche. Dopo il tempo detto, lo fece trarre fuori , e innanzi a lui fece mettere molte belle gioie, e di molte belle donzelle, tutte cose nominando per nome, e dettoli le donzelle essere demoni; e poi li domandaro quale d’esse gli fosse più graziosa.
Rispose: ‘I demoni’.
Allora lo re di ciò si meravigliò molto, dicendo: ‘Che cosa è tirannia e bellore di donna!’
L’eterossessualità come istinto congenito del maschio: dei veri barbari medioevali.
Il Re Giovane. Il Novellino ha sempre la forza di mettermi di buonumore. In esso si ritrova tutto, dalla classicità al Cristianesimo ai personaggi più nobili del tempo. Il legante è la generosità dell’animo, la grandezza del cuore, la purezza dei sentimenti, la lealtà, l’onore, la magnanimità, il valore. Le costruzioni che vennero erette dall’aristocrazia dell’anima occidentale qui risplendono di luce viva, irrefutabile. Il cerchio dei grandi uomini, degli “antiqui huomini”, forma un disegno apotropaico contro la dissoluzione. Qui, al di là del chiacchiericcio da sincretismo new age, possiamo toccare plasticamente l’essenza di ciò che fummo e di ciò che occorre che si viva, oggi, per non morire della morte più atroce.
Una dei personaggi chiari, adamantini, del Novellino è un re inglese, il Re Giovane d’Inghilterra, salito al trono a quindici anni: l’anonimo compilatore ne loda “la grandissima cortesia e liberalità”, la probità, il gesto contenuto e grazioso dell’altriusmo.
Che tale cosa sia vera o meno, ch’egli sia vissuto o no, questo è secondario, inessenziale.
Muslimgay. Leggo dal sito Neovitruvian (una sorta di sbalorditiva galleria degli orrori PolCor; che siano veri o meno poco conta: sono senz’altro verosimili) che un tale Bilan Hassan, diciannovenne marocchino, musulmano, già migrante e ora francese a tutti gli effetti, inevitabilmente gay, parteciperà a un contest musicale europeo et cetera et cetera etr cetera. Il tizio, trucco pesante e parrucca, incerto nel genere sin dalle sopracciglia, è, altrettanto inevitabilmente, una star del web e dei social. Altrettanto inevitabilmente fa discutere. Egli, infatti, nel passato, pare si sia macchiato di atteggiamenti ambiguamente antisemiti o che, addirittura, fosse moralmente colluso con gli attentatori in terra di Francia! Nientemeno! Ma ci rendiamo conto!
Son le consuete balle o ballon d’essai. Qui, attraverso dicerie o sciocchezze inventate di sana pianta, si gioca su due tavoli: da una parte si propaganda uno stile di vita edonista e sessualmente indecifrabile, dall’altra si rende accettabile al mondo musulmano, grazie all’ambiguità politica di cui sopra, ciò che prima non sarebbe mai stato accettabile. Anche quella cultura, infatti, deve sparire, lentamente, nella pozza di sterco liquido del nulla. Mezzi e mezzucci, ma, alla lunga, efficaci.
I veri musulmani sono coloro che parteggiano per Hassan, non come quelle bestie che uccidono fumettisti e cantanti rock!
Hassan sarà pure frou frou, ma è dalla nostra, ribattono dalla parte opposta.
Due piccioni con una fava! Oriana Fallaci e i fallaciani hanno mai capito qualcosa sul potere? Macché.
Rocky Horror Picture Show. Trasformare l’ultima civiltà nello spettacolo del Rocky Horror è stata dura: siamo alle battute conclusive. Frank-N-Furter, l’alieno tra(ns)vestito (a sweet transvestite) del transessuale pianeta Transylvania, dirige il teatrino delle marionette in reggicalze. Dont’dream it, be it.
Gli ultimi Inglesi. William Shakespeare fu uno degli ultimi rappresentanti dell’Anglosassone europeo. Da allora si ebbero inglesi bottegai e colonizzatori, pirati e banchieri, ma sempre meno europei e occidentali. L’europeo, l’ariano con l’unico stigma possibile, colui che trae forza dalla spaventosa visione della morte, divenne, a quelle latitudini, rarefatto, sino a rilevare esclusivamente in alcune eccezioni. Si può affermare che furono più inglesi certi americani o irlandesi che non l’inglese stesso, perso nei suoi affarucci quotidiani e oggi ridotto, nell’immaginario della tipizzazione, al registratore di cassa del suo passato da strozzino moderno.
Emily Brontë fu una di tali eccezioni. La vita di Emily, delle sorelle e del fratello Branwell, costretti nel romitorio desolato e glaciale di Haworth, è di incredibile e allucinata disperazione, se letta con gli occhi ridanciani dell’oggi.
La madre Maria Branwell morì di stenti a trentotto anni; le sorelle Maria ed Elizabeth a dieci; Anne, Emily e Patrick Branwell a trenta, Charlotte a nemmeno quaranta.
Emily Brontë non viveva per i contemporanei, né per il giudizio di nessuno. L’attualità gli era indifferente. Ella gravitava costantemente in altri mondi. Era un genio poiché possedeva la chiave del genio, misconosciuta da tutti. La conoscenza dell’amore e della morte in lei, che non conobbe il sesso, furono assolute. Per questo, nonostante una produzione che si limita a un romanzo, ad alcune poesie e a una manciata di disegni (un falchetto, l’amatissimo cane), è pre-sentita, per vie misteriose e oscure, quale un classico. Ecco una donna, scevra da ogni affettazione e moda, scostante, insondabile, di viva intelligenza; in grado di precipitare una nera misantropia in gesti di altruismo incomprensibili ai farisei – gesti paurosi nel loro metafisico, pieno, disinteresse.
Durante le interminabili passeggiate nella brughiera, piatta per le nevi o desolata sotto i deboli soli autunnali, ingentilita da eriche, robinie e ginestre estive, o risvegliata nella primavera, quando il ghiaccio si fa sempre più sottile, azzurrino, sino a lasciar intravedere sotto di sé le correnti ancor indecise dei ruscelli, ella si adagiava sul terreno e scrutava le forma delle nuvole, per ore; tornava da quelle peregrinazioni come trasfigurata; i poveri di spirito allora parlavano con innocente foga del suo sguardo trasognato (“Her countenance was lit up with a divine light. Had she been holding converse with Angels, it would not have shone brighter. It seemed to me holy, heavenly …”); ella vedeva, oltre, sino a cieli, e ammansiva cani e bestie! E poi il silenzio, l’energia mascherata da indolenza, l’amicizia conferita ai pochissimi, e la devozione, sino al sacrificio, riservata a quei felici pochi … e allo stesso tempo, inaspettato, roba da far cadere tazze da tè e piattini, il frizzo umoristico, la battuta salace … Signori, vi dono il ritratto di una vera europea; l’ariana ricercata da Evola e compagnia, eccola qui. La morte nelle ossa, febbrile e continua, l’avidità per la vita che viene distillata in parole e simboli. La noncuranza per la pratica ottusa, l’abnegazione per la famiglia, il sentimento fatale. Il resoconto della sua agonia, stilato da Charlotte, è degno di un essere superiore, in cui son condensati pudicamente stoicismo e sprezzo.
In lei la densità del pensiero e delle scelte atterriscono. E, infatti, una pagina di Cime tempestose equivale all’intera produzione di Umberto Eco; ora lo si capisce? La potenza letteraria di Emily è simile, per profondità interiore, a Eschilo, Cavalcanti, Marlowe, Leopardi, Mimnermo, Keats. La letteratura si pesa, non si conta in pagine. La vera grandezza, poi, si veste del dato tecnico, non vi soggiace. Le circonvoluzioni grammaticali e logiche non reggono l’urto di una forza interiore che deborda da ogni legaccio prosaico. Non si ritrovano, nei rari scritti, dilungamenti narrativi: si percepisce, oltre quelli, nonostante quelli vien da dire, un mondo altro. Emily era credente? Atea? Panteista? Visionaria? Lei, che non lasciò la piccola camera se non per pochi mesi, e che visse circondata dalla prateria inglese, avara di colori, e dal minuscolo cimitero che poi trasmutò letterariamente in quello di Heathcliff e Catherine, Emily in estasi? Il gaglioffame PolCor ha sempre sulla lingua lo sberleffo, il razionalismo da spazzatura, lo psicologismo da discarica per spiegare tali uomini e tali donne. Ma è il sentimento essenziale a decidere, quello definitivo, aristocratico, occidentale, intuito con mezzi scabri e semplicissimi:
Son davvero felice quanto più lontana reco
l’anima mia dalla sua veste d’argilla
nel vento della notte quando splende la luna
e spazia il mio sguardo su mondi di luce
quando non sono e nessuno mi è accanto
la terra o il mare o un cielo senza nubi
ma è solo lo spirito che vaga lontano
nella vastità immensa dell’infinito
Felice quando può recare lontana l’anima dalla sua prigione di fango, “its home of clay”. “Clay”, il fango, l’argilla, l’elemento costitutivo di Anassimandro, torna nella celeberrima scena di Amleto e del becchino che dissotterra il cranio di Yorick.
La visione della morte universale, Lady Worm, è sarcastica e totale:
“Alessandro morì, Alessandro fu seppellito, Alessandro tornò polvere [dust], la polvere è terra, con la polvere si fa la calcina, e perché con quella calcina in cui egli si mutò non potrebbero aver tappato un barile di birra? L’onnipotente Cesare, defunto e convertito in calce [clay], tappa un buco per tener fuori il vento”.
La visione pessimistica, onnicomprensiva, cosmica, mette in crisi Amleto, bloccato nell’azione. A che pro l’azione se siamo destinati alla polvere, al fango? Ecco il nucleo concettuale del to be or not to be. Essere o non essere? Tale il dilemma di Amleto, epitome della crisi postmoderna, e il dilemma dell’Occidente stesso, da sempre; un dilemma ch’Esso, però, risolse nell’azione. Amleto è un ariano febbricitante, dubbioso, eppure, nonostante il terrore per l’inutilità dell’agire, intende conseguire, la propria vendetta. Tutti noi siamo nati per la vendetta. La vita si compone di tale atti di redenzione dal nichilismo in cui l’incarnato della risolutezza si libera dalla sterile riflessione per mutarsi nel volto arrossato di Marte. No coward soul is mine/no trembler in the world’s storm-troubled sphere. Arte e Guerra sono le spade che abbiamo esibito di fronte all’universo.
Che fare? Trasformare la propria vita in politica, ecco cosa fare. Perdere tempo con teorie economiche, invettive o croci da analfabeta non sposterà il potere di un millimetro. Intuire la rivolta, come occidentali, nei termini sopra descritti, e tramutarla in carne: questo è davvero rivoluzionario. Oscar Wilde anelava la corrispondenza fra vita e arte; propongo, invece, per i nostri tempi apocalittici, l’identificazione fra la vita e tale nuovo arianesimo. Il disgusto sistematico verso ciò che ci viene propinato, l’abolizione dell’attualità e del pettegolezzo, il passaggio infuocato nel disprezzo. Respingere il futuro, ricreare il passato in noi; ragionare in termini assoluti; in hilaritate tristis in tristitia hilaris, come è giusto che sia.
Intellettuali stupidi. Gli unici intellettuali che ci restano sono quelli stupidi. Quelli anticlericali in primis. Anticlericali: in verità non riesco a concepire, oggi, una visione più angusta e sciocca. Se un tale la butta sull’anticlericale o sulla religione da cancellare per il bene dell’umanità, siete sulla strada giusta: o è in malafede o è un cretino. Come se, durante la ritirata più umiliante e vergognosa, si desse le colpa ai tamburini. A un gradino di stupidità sottostante abbiamo gli intellettuali anti-islamici. Michel Onfray e Michel Houllebecq sono i maggiori e più recenti pifferai di tali due losche attitudini. Che due tangheri del genere, sospetti sin dal fenotipo, edonisti, epicurei e deprimenti, sicuramente piccini, siano divenuti simboli della rivolta contro il potere dice tutto sui nostri tempi di confusione.
Cime tempestose. Chi, oggi, voglia affrontare il romanzo di Emily Brontë, Wuthering heights, si troverebbe ai piedi di una ascesa forse impossibile da intraprendere. Molti rinunciano dopo poche pagine. Trovano il libro pesante, ingarbugliato. Quelli che riescono nell’impresa rimangono, alla fine, perplessi. Cosa c’è, in realtà in queste pagine? Cosa vuol dirci l’autrice, spigolosa, enigmatica, bislacca, contradditoria? È una storia d’amore? Una maledizione? Non c’è nulla da capire, subito. Forse in seguito. Quando lo si rileggerà – dopo nuove esperienze – altro ci sarà chiaro. Poi, forse, a distanza di anni – in fin di vita – quasi tutto. È il destino dei capolavori quello di rimanere indecifrati; di resistere all’interpretazione; di suscitarne decine, diverse e contrastanti; di allettare con una soluzione per sconvolgerla improvvisamente. Un capolavoro, infatti, contiene il mondo.
L’impero delle luci. Remota dai mali del mondo e dalla città è una minuscola altura, sconosciuta ai più, ritagliata fra le linee di una celebre via consolare e del suo lungo diverticolo nel suburbio. Su quella trascurabile prospicienza siede dimenticato un grumo di antichi casali, una volta efficiente avamposto della campagna romana. I resti, in buono stato, sono contornati da una selva di pini secolari, alcuni diritti e robusti, altri piegati in pose spettacolari per l’abbandono alla selvatichezza; diversi giacciono a terra, schiantati dal vento, come una rosa di spine attorno al corpo degli edifici. Il cammino d’entrata alla tenuta, fiancheggiato sempre da pini, e preceduto da un arco d’ingresso ancora intatto, è tagliato perpendicolarmente da una fila ordinati di rovi, incongruamente rettilinea: essi segnalano probabilmente il tracciato di un cunicolo etrusco per il drenaggio e la raccolta delle acque.
I casali vantano una propria autorevolezza architettonica. I casoni per i lavoranti, scialbati e vigorosi, convivono con elementi più leggiadri: persino le aie e le torri agricole, con le loro merlature, hanno un che di civettuolo; i palazzetti padronali, ricchi di filari di colonnette neoclassiche, volte a botte, lucernari e terrazzini, inglobano in sé marmi antichi, candidi e consunti, in un tripudio di felice e ardito gusto sincretista.
Il silenzio è completo.
Gli aghi di pino crocchiano a ogni passo.
Ecco la chiesetta, i rotondi sili, gli spiazzi per le granaglie e gli orti ora scomparsi.
Improvviso, il frusciare delle ali d’un popolo di colombi.
La bellezza si nutre della propria rovina, ecco una legge universale. Conta meno la forma che l’intrinseca nobiltà dei materiali e la perizia perfetta e amorevole nel connetterli l’uno con l’altro. Così come un’opera letteraria tollera benevolente innumerevoli riletture, e rinasce a ognuna d’esse, sempre nuova, così l’arte sopporta le ingiurie del tempo: le statue di marmo, una naiade, un piccolo tritone, accrescono la propria grazia nonostante mutilazioni e polverizzazioni; le pietre, dilavate dalle pioggie, si fanno più reali; i colori sbiadiscono col fascino degli eventi irrecuperabili. Si avverte una forza in tale disfacimento. Qui erano uomini che progettavano, che credevano in un avvenire. Allontanandosi da quei resti, nell’approssimarsi della sera, le figure perdono di profondità, si mutano in sagome oscure stagliandosi nette contro il lapislazzulo chiarissimo della sera. Si cammina, il vento è fresco e vivace. Si cammina e ci si volta, ancora, a riguardare quel pugno di alberi e mura, una volta fiorente, sorgente dal pianoro di una dolcezza piana e delicata. Improvviso, il miracolo. Proprio nel mezzo dei casali, ecco un’apparizione, una luce. Ancor fioca, nel giorno che muore, eppure è lì. Cos’è? Non un uomo la reca, non certo a quell’ora. Forse una lampada per le abitazioni principali, fissa sopra uno degli ingressi a scalinata. Lungo tutto l’orizzonte della campagna, d’un verde cupo e abbrunato, a fissarlo con intensità, ora il puntolino risalta distinto, innegabile. Decenni di sfascio e incuria, ma, all’insaputa di tutti, un chiarore di candela brilla nel buio; il rumore bestiale della città non ha qui dominio, e nemmeno i pensieri futili dell’umanità tutta. Gli affari vorticano, lo strepito assorda ogni cosa, ronzano modem e computer, numeri digitali si susseguono nelle pupille degli uomini a decidere esistenze, fischiano le metropolitane ad alta velocità; si organizzano incontri per la serata, cene, appuntamenti; i più filano svelti, a capo chino, a rinserrare sé stessi nel carapace dell’asocialità digitale. Un dio nero osserva senza palpebre dai più alti cornicioni la terra di confusione, compiaciuto dalla babele che serra i quattro angoli del mondo. E quando il tramestio quotidiano, inutile di rimbombi e voci, arriva al culmine, ecco che, remota agli sguardi, nelle campagne della Prima Roma, entro tenebre silenziose e amiche, si accende quell’insperato barlume. Nessuno ne conosce l’esistenza; tutti ne ignorano la fonte; eppure, ogni notte, una dopo l’altra, ecco – egli lo sa! – il sopravvissuto è meno solo: lo accompagna, in segreto, l’impero delle luci.