Una delle ipotesi scientifiche più affascinanti in cui oggi è possibile imbattersi è certamente quella dei campi morfogenetici, altrimenti detti campi morfici, per quanto sia oggetto di dibattiti all’interno della comunità scientifica in quanto non ancora universalmente accettata. Essa deve la sua più piena formulazione principalmente al biologo inglese Rupert Sheldrake1, che ha consacrato la propria vita di ricercatore allo studio di quei fenomeni che egli chiama di risonanza morfica. Essendo Sheldrake un biologo, egli si avvicinò allo studio dei campi morfici partendo dalla cosiddetta morfogenesi degli organismi viventi. Per morfogenesi si intende “l’insieme dei processi che portano al differenziamento dei tessuti e degli organi a partire da elementi indifferenziati”2. Si è soliti pensare che i processi di morfogenesi siano determinati in prevalenza dal patrimonio genetico codificato nel DNA, essendo tutte le “istruzioni” del caso in esso contenute. In effetti ciò è vero. Ma si sbaglierebbe nel pensare che il DNA sia l’unico fattore in gioco; quello non è che un aspetto parziale dei processi di morfogenesi, e neppure il principale. Vi è ben altro. Ed è stato questo “altro” a motivare le ricerche scientifiche di Shedrake. Ma innanzitutto si devono fare delle premesse fondamentali.

Facciamo un esempio concreto. In chimica organica le catene polipeptidiche3 che costituiscono le macromolecole come le proteine si ripiegano e si intrecciano dando luogo a strutture tridimensionali particolarmente complesse. Per meglio capire, si dia un’occhiata alla seguente illustrazione, che rappresenta la catena polipeptidica dell’enzima fosfoglicerato chinasi4:

Già ad un primo sguardo appare evidente la complessità della struttura, che si presenta come particolarmente arzigogolata. Orbene, in condizioni per così dire standard, le strutture delle molecole proteiche non cambiano mai e mantengono sempre la stessa complessità. Ma si è osservato che anche modificando il loro ambiente chimico, una volta ripristinate le condizioni di partenza, le strutture delle molecole ritornano spontaneamente alla loro forma originale, per quanto elaborata questa possa essere. Si sarebbe portati a credere che questo sia un fenomeno del tutto normale e per nulla sorprendente, non essendo altro che la conseguenza del fatto che ogni sistema chimico tende naturalmente alla forma con la minima energia potenziale. Tuttavia le strutture sono così complesse da non potersi escludere che vi siano più forme in cui esse si possono ripiegare, soddisfacendo comunque il criterio della minima energia potenziale. Si parla in questo caso di problema dei molti minimi. Se fosse effettivamente così, si stima che, teoricamente, una catena polipeptidica composta da 150 residui di amminoacidi potrebbe arrivare ad assumere fino a 1045 possibili combinazioni differenti5. Eppure la forma a cui questa catena tende in maniera spontanea è sempre la stessa ed il processo di “ripristino” della forma normale avviene ad una tale velocità da far supporre che debba necessariamente entrare in gioco un ulteriore fattore che condizioni in maniera decisiva l’intero processo morfogenetico.

Fu così che Rupert Sheldrake elaborò il concetto di campo morfico. In natura esistono alcuni tipi di campi che sono essenzialmente regioni non materiali di influenza. Parlando di campi, il primo che ci viene in mente è quello gravitazionale della Terra che è tutto intorno a noi. Non possiamo vederlo, non essendo un oggetto materiale, ma è comunque reale ed i suoi effetti si manifestano nel dare un peso alle cose e nel farle cadere. In questo momento ad esempio ognuno di noi è trattenuto verso la Terra dalla forza di gravità. Similmente, la Luna si muove intorno alla Terra a causa della curvatura del campo gravitazionale terrestre così come i pianeti si muovono intorno al Sole a causa della curvatura del campo solare. In definitiva il campo gravitazionale pervade l’intero universo, curvando tutta la materia al suo interno.

Anche il campo elettromagnetico è un qualcosa di reale che tuttavia non siamo in grado di rilevare con i nostri sensi, ma solo attraverso i suoi effetti fisici sulla materia. Ad esempio, grazie ad esso possiamo fare uso di radio e TV e di telefoni cellulari. Allo stesso modo, non possiamo scorgere la struttura spaziale del campo attorno ad un magnete di ferro almeno fino a quando spruzzando della limatura di ferro intorno ad esso non si rivela l’esistenza del campo medesimo. Questi sono gli esempi più noti e famigliari di campi, ma non sono gli unici. Secondo la fisica quantistica, esistono anche dei campi quantici come campi di elettroni, campi di neutroni, e così via, che sono campi microscopici all’interno dei quali tutte le particelle di materia esistono come quanti di energia vibratoria.

Sheldrake sostiene l’ipotesi, detta della causalità formativa, che non solo esiste una nuova tipologia di campo, quello morfogenetico o morfico appunto, ma che al pari dei campi gravitazionali, elettromagnetici e quantistici noti ai fisici, anche questo sia intimamente legato alla materia tanto da interagire con questa ed organizzarla. Si tratta sicuramente di un’ipotesi scientifica ardita, non ancora universalmente accettata dal mondo accademico e che certo non può che suscitare grandi perplessità soprattutto presso il grande pubblico, avvezzo sin dai tempi dell’Età dei Lumi a possedere solamente una visione positivista della realtà, tale per cui ancora oggi la maggior parte di noi è ancora indotta a credere che tutto sia materia e che quest’ultima esista a prescindere. Ma la moderna fisica quantistica – lo si è già detto in un’altra occasione6 – deve portarci a rivalutare questa nostra idea preconcetta, perché si ritiene oggi che la materia non sia una sostanza passiva e inerte, costituita da atomi “duri”, ma sia invece costituita da processi ritmici di attività, di energia legata e modellata all’interno dei campi. D’altronde, la celeberrima formula di Einstein E=mc2 non fa altro che stabilire l’equivalenza tra massa ed energia per cui anche la materia dovrebbe essere in ultima istanza considerata come una forma di energia immateriale.

In definitiva, secondo questa ipotesi della causalità formativa così come è stata elaborata da Sheldrake i campi morfici sarebbero in grado di svolgere un ruolo causale nello sviluppo e nel mantenimento della forma dei sistemi a tutti i livelli di complessità. Sarebbero dunque i campi morfici a far sì che le catene polipeptidiche assumano sempre la stessa struttura e non un’altra tra quelle innumerevoli a cui potrebbero potenzialmente conformarsi. Al contempo, sarebbero sempre i campi morfici e non tanto il DNA ciò che realmente determina i processi di morfogenesi. Sheldrake stesso a questo proposito utilizzò un’analogia architettonica per meglio esprimere le sue idee. Per l’edificazione di una casa, sono necessari innanzitutto i mattoni e tutti gli altri materiali che verranno di volta in volta utilizzati dagli operai preposti alla costruzione. Ma con gli stessi materiali e con la stessa quantità di ore di lavoro è possibile dar forma a edifici con strutture totalmente diverse. Ciò che in ultima istanza determina la forma e la struttura dell’edificio, il fatto che sia disposto su uno o più piani, abbia un certo numero di stanze piuttosto che un altro, una base a forma rettangolare, quadrata o qualunque altra, un tetto più o meno sporgente, ecc… è il progetto che gli operai addetti alla costruzione sono tenuti a seguire. In qualche modo, per semplificare, potremmo dire che i campi morfici equivalgono al progetto secondo cui la casa verrà edificata, mentre il DNA sono i mattoni e tutti gli altri materiali effettivamente impiegati nella costruzione dell’edificio. In breve, il DNA ci dice non come sarà la forma definitiva di un organismo, ma con quale materiale organico verrà costituito.

A questo punto, prendendo per vera l’ipotesi della causalità formativa, è lecito porsi alcuni quesiti fondamentali. In che maniera i campi morfici sarebbero capaci di determinare la morfogenesi di un organismo? In che modo si verifica concretamente questa causalità formativa? Qual è quella forma di energia grazie alla quale la materia può essere condizionata da un campo morfogenetico? In realtà, è improprio parlare di energia. L’ipotesi della causalità formativa postula che essa dipenda da una sorta di risonanza, chiamata risonanza morfica, che avverrebbe sulla base della somiglianza. La risonanza morfica non comporterebbe un trasferimento di energia da un sistema ad un altro, ma piuttosto un trasferimento non energetico di informazioni. Le cellule, gli organismi, le specie animali e vegetali, entrerebbero così in risonanza con i rispettivi campi morfogenetici.

Per comprendere cosa sia un campo morfico occorre fare un salto logico importante. Si è appena parlato di scambi di informazioni tra un organismo ed il suo campo morfico di rifermento. Ma da dove traggono origine queste informazioni? Dove vengono conservate? In pratica, secondo l’ipotesi della causalità formativa, esisterebbe una sorta di memoria collettiva specifica per ciascuna specie biologica cui i membri di questo dato gruppo attingerebbero sincronicamente. Questa memoria collettiva – che non è senza ricordare il concetto di inconscio collettivo così caro a Carl Gustav Jung – potrebbe essere definita come un campo di informazione presente in una dimensione a-temporale e a-spaziale.

Giunti a questo punto, i più avranno strabuzzato gli occhi: che cosa vuole dire campo di informazione presente in una dimensione a-temporale e a spaziale? Chi esiste un’altra dimensione in cui vengono archiviate queste informazioni? Questo è certamente un argomento assai difficile da trattare, molto più difficile da capire ma – soprattutto – ancor più difficile da accettare come vero. Però è di questo si tratta: fondamentalmente bisogna postulare l’esistenza in una dimensione che trascende il nostro spazio-tempo di una sorta di contenitore di informazione e di memoria, qualcosa di simile ad un cloud, ad un database, nel quale col passare del tempo si depositano tutte le informazioni relative alle proprietà comportamentali, psicologiche o addirittura organiche di uno specifico gruppo biologico. Questo cloud sarebbe il campo morfico propriamente detto. Il meccanismo della risonanza morfica sarebbe invece una trasmissione non-locale di informazione da un punto all’altro dello spazio-tempo verso i membri appartenenti a quel dato gruppo biologico cui questo particolare campo morfico fa riferimento. Sicché, quanto più un organismo è simile agli organismi precedenti, tanto maggiore è la loro influenza su di esso attraverso il processo della risonanza morfica.

Questo complesso concetto presuppone inoltre che vi sia un deposito di informazioni nel corso del tempo. L’idea che i campi morfogenetici contengano una memoria intrinseca è il punto di partenza per l’ipotesi della causalità formativa. Ogni tipo di cellula, tessuto, organo e organismo ha un proprio tipo di campo morfico di riferimento, il quale modella e organizza i microrganismi in via di sviluppo, stabilizzando nel contempo le forme degli organismi adulti. Così, ad esempio, il campo morfogenetico proprio delle piante di garofano viene modellato dalle influenze delle precedenti generazioni di piante di garofano, così come quello del girasole viene modellato dalle influenze delle precedenti generazioni di girasole. Un campo morfogenetico è dunque una sorta di memoria collettiva della specie capace di plasmare ogni suo membro. Ma in qualche modo è vero anche il contrario, nel senso che a sua volta ogni membro di una specie col proprio comportamento è in grado di contribuire ad una ulteriore evoluzione di questa memoria collettiva propria della sua specie, finendo così con l’influenzare attraverso la risonanza morfica i futuri membri della stessa. In linea di massima, tutti i membri passati di una certa specie hanno avuto modo di influenzare i campi morfici propri di quella stessa specie, così come i membri presenti possono influenzare quelli futuri, avendo a loro volta dato il proprio contributo alla modificazione del campo morfico della specie in questione. Pertanto è una influenza di tipo cumulativo, che aumenta con l’aumentare del numero totale dei membri della specie in questione.

Questo discorso conduce ad un’altra considerazione: che i principi organizzatori invisibili della natura, quelli che abitualmente potremmo chiamare leggi fisiche immutabili perché tali a noi appaiono, piuttosto che essere eternamente fissi potrebbero evolversi insieme ai sistemi che organizzano. Sheldrake estese il concetto di risonanza morfica anche alle sostanze inanimate, come ad esempio i cristalli. I campi morfici di quei cristalli che si sono già verificati molte volte in passato risulterebbero dunque essere altamente stabilizzati dall’accumulo delle risonanze morfiche precedenti, cosicché i cambiamenti in questi campi non saranno sperimentalmente rilevabili tanto da indurci a ritenere le leggi fondamentali che regolano la struttura di questi cristalli come fisse ed immutabili. Ma le cose potrebbero essere differenti per quelle sostanze chimiche di nuova sintesi che non sono mai esistite in precedenza. Ogni anno, una miriade di nuovi tipi di molecole vengono sintetizzate artificialmente da chimici nelle università e nei laboratori industriali. Ma prima che una tale sostanza cristallizzi per la prima volta in maniera stabile, non ci sarà ancora stato un campo morfico specifico per la sua particolare struttura reticolare o per la forma del cristallo nel suo insieme. Pertanto non potrà ancora esserci alcuna risonanza morfica da precedenti cristalli di questo stesso tipo, dal momento che prima semplicemente non esistevano affatto. Ma quando questa nuova sostanza si cristallizza per la prima volta, ecco che nasce un nuovo campo morfogenetico proprio di quella stessa sostanza. La seconda volta, i campi saranno influenzati dalla risonanza morfica dei primi cristalli; la terza volta, da campi morfici della prima e della seconda “generazione” di cristalli; e così via. Ci sarà alla fine un accumulo di risonanza morfica tale da stabilizzare i campi dei cristalli successivi. In questa maniera una cristallizzazione di questo tipo diverrà in futuro sempre più frequente fino a trasformarsi in qualcosa che ci appare come simile ad una legge fisica trascendente.

Se i concetti di campo e di risonanza morfici vi appaiono così assurdi da faticare a ritenerli plausibili, niente paura: se sembrano cose dell’altro mondo è proprio perché lo sono. Letteralmente. Infatti non è questa un’ipotesi scientifica comprovata sperimentalmente o universalmente accettata. Ma è una teoria estremamente affascinante che soprattutto può dare una spiegazione a fenomeni che la scienza moderna non è ancora in grado di spiegare. In fin dei conti, si tratterebbe solo di accettare una rivoluzione scientifica così come tratteggiata da Thomas Kuhn7. Tuttavia i fenomeni di presunta risonanza morfica sono molto più comuni di quanto non si possa immaginare. Passiamo pertanto a fare alcuni esempi empirici.

Stando all’ipotesi della causalità formativa, dovremmo dedurre che gli organismi viventi ereditino dai loro antenati non solo il loro patrimonio genetico ma pure i loro corrispondenti campi morfici. Dunque, il concetto di ereditarietà in senso lato dipenderebbe sia dai geni sia dalla risonanza morfica. Al contrario, la teoria convenzionale, di stampo prettamente meccanicista, tenta di comprimere tutte le caratteristiche ereditarie degli organismi nei loro geni, così da considerare lo sviluppo organico come la mera espressione di questi geni attraverso la sintesi di proteine e di altre molecole.

Una delle più grandi sorprese del progetto del genoma umano è stata la scoperta che noi umani abbiamo solo circa 20.000-25.000 geni, ben pochi rispetto ai 100.000 che inizialmente si era messo in preventivo di trovare; in più si è appurato che solo l’1,5% di questi geni concorre effettivamente al processo di codifica e di controllo delle proteine, mentre il restante 98,5% del nostro DNA è non codificante8. Sono risultati a dir poco sbalorditivi, se si tiene ad esempio in considerazione che i ricci di mare, considerati una forma di vita estremamente basilare, hanno grossomodo il nostro stesso numero di geni9; e molte specie di piante ne hanno ancora di più.

Altrettanto sorprendente è stato apprendere che le differenze genetiche tra gli esseri umani e gli scimpanzé sono minime. Persino il famoso genetista Svante Paabo10, direttore del dipartimento di genetica del Max Planck Institute di Lipsia, un’autentica autorità in materia, se ne è a tal punto meravigliato da domandarsi che cosa realmente differenzi l’homo sapiens dallo scimpanzé, avendo le due specie in comune più del 99% del codice genetico. Quindi se ne deduce che esista un ulteriore fattore, oltre al DNA, in grado di modellare le forme delle cellule, dei tessuti, degli organi e degli organismi nel loro insieme durante il processo di morfogenesi. Altrimenti sarebbe impossibile spiegare che cosa realmente differenzi un uomo da uno scimpanzé. Ebbene, questo ulteriore fattore di differenziazione potrebbe essere individuato nella presenza di campi morfici, uno ad hoc per la specie scimpanzé l’altro per la specie homo sapiens. Il che parrebbe avvalorare l’ipotesi della causalità formativa.

1 https://it.wikipedia.org/wiki/Rupert_Sheldrake

2 https://www.treccani.it/enciclopedia/morfogenesi/

3 https://it.wikipedia.org/wiki/Polipeptide

4 https://it.wikipedia.org/wiki/Fosfoglicerato_chinasi

5 Sheldrake Rupert, L’ipotesi della causalità formativa, Red Edizioni, Como, pag. 74

6 https://www.orazero.org/affatturamenti/

7 https://it.wikipedia.org/wiki/Thomas_Kuhn

8 https://it.wikipedia.org/wiki/Genoma_umano

9 https://phys.org/news/2006-12-sea-urchin-genome-suprisingly-similar.html

10 https://it.wikipedia.org/wiki/Svante_Pääbo