Qual è la lingua più parlata al mondo? Non sorprendentemente, si tratta del cinese mandarino. D’altronde, anche se oramai l’India pare essere diventata la nazione più popolosa al mondo1, in Cina sono un miliardo e rotti!

Tuttavia il cinese è la lingua più parlata al mondo “solo” in quanto lingua nativa; ovvero, considerando che ormai sempre più gente tende ad essere poliglotta e a imparare e parlare più di una lingua per lavoro, studio, turismo o per semplice piacere di conoscenza, ecco che risulta che sia la lingua inglese la più parlata al mondo.

Mai in passato era capitato che una lingua venisse parlata da più gente come seconda lingua che come prima lingua2. Complice anche il passato coloniale della Gran Bretagna, che nel corso dei secoli ha saputo estendere il suo dominio su buona parte del globo terracqueo, nonché alla predominanza politica, economica, militare e culturale degli Stati Uniti a partire dalla fine della Seconda Guerra mondiale, l’inglese si è imposto come una sorta di lingua franca internazionale, parlata e capita un po’ da tutti, una sorta di strumento culturalmente neutro grazie al quale poter intrattenere una conversazione con chi non condivide la nostra stessa lingua madre, ed alla base del commercio, del turismo, del mondo dello spettacolo e dell’intrattenimento, e persino della scienza.

Indubbiamente la letteratura inglese ha un passato glorioso alle spalle. Basti solo pensare a Shakespeare, da annoverarsi assieme a Dante e Omero come autentico gigante della letteratura mondiale (anche se secondo taluni studiosi Shakespeare non era inglese ma, forse, addirittura italiano3). Parimenti l’inglese ha un vocabolario straordinariamente ampio (quasi 500.000 lessemi sono presenti nei dizionari più rinomati, anche se si tratta per lo più di vocaboli di origine tecnica4).

Tutto ciò però non toglie che l’inglese sia una lingua che, personalmente, a me non piace. L’ho studiata, la conosco, la parlo più o meno correttamente (ma solo quando mi tocca), ci leggo ogni giorno libri ed articoli, ma non mi piace! De gustibus non disputandum est, si obietterà non senza ragione. E mi è anche difficile spiegare il motivo di questa mia personale avversione verso la lingua della perfida Albione. Ma è così. Essendo madrelingua italiano, essendo cioè abituato a parlare e pensare in quella che Thomas Mann era convinto fosse la lingua parlata in cielo dagli angeli5, ogni qualvolta mi trovo a parlare in inglese mi pare di patire un qualcosa che non riesco a definire correttamente ma che istintivamente percepisco come un declassamento, un’involuzione, un abbassarsi ad un livello inferiore, al quale non dovrei essere tenuto, parlando appunto come lingua nativa la lingua degli angeli.

Il fatto è che concordo col noto filosofo Umberto Galimberti6 il quale, non senza una certa dose di cattiveria, ha definito l’inglese “un tedesco andato a male, una non lingua, […] perché i preti parlavano latino, i nobili francesi e il popolo parlava tedesco; e mescolando queste tre lingue abbiamo fatto l’inglese”7. Un amante della letteratura inglese storcerà il naso di fronte a queste asserzioni; peggio, inorridirà. Ma Galimberti ha pienamente ragione nel sottolineare come alla lingua inglese manchi totalmente “una prerogativa fondamentale del pensiero occidentale che è l’astrazione. Gli inglesi non hanno l’astrazione, gli manca l’impersonale, non sanno pensare in modo astratto. […] Non hanno neppure l’espressione qualcuno, nessuno; devono dire anybody, somebody. Cioè se non c’è il corpo non si sa di cosa stiamo parlando”.

Al di là delle obiezioni che legittimamente si possono portare alle affermazioni di Galimberti, resta il fatto che il pensiero filosofico inglese – per lo meno da quando la lingua si è evoluta nell’inglese moderno dall’inglese medio che aveva un’impronta ancora marcatamente germanica8 – è sempre stato molto povero di spiritualità perché improntato al pragmatismo più spinto. Hobbes, Bacon, Hume, Locke, Berkeley… per non fare che pochi nomi: tutti campioni di quella corrente filosofica che prese il nome di empirismo. Non sorprende che in seguito la terra della perfida Albione abbia dato i natali a gente come Malthus, Smith e Darwin: potevano nascere solo lì. E questo per via dell’impronta mentale che ogni lingua dà inesorabilmente ai propri locutori.

È d’altro canto vero che lo stesso italiano è una lingua che si presta abbastanza poco alle elucubrazioni filosofiche; è infatti una lingua letteraria – nata principalmente per merito di Dante prima e del Manzoni dopo – dove, per dare compiutamente senso al sostantivo ed alla frase, è a volte necessario ricorrere ad aggettivi e avverbi oppure a locuzioni specifiche, dal momento che la parola in sé spesso difetta della sufficiente carica di significato. Altre lingue, invece, per la loro stessa natura hanno reso possibile lo sviluppo di un pensiero filosofico decisamente più corposo. Si pensi ad esempio all’antica Grecia. Il greco antico contava ben 84.000 vocaboli, contro i 4.000 in uso nel latino, una lingua essenzialmente tecnica. Oppure alla Germania. Il tedesco permette di sbizzarrirsi quasi illimitatamente nella composizione delle singole parole allo scopo di poterne meglio specificare il significato. Rhein-Main-Donaugroßschifffahrtswegdampfschifffahrtsgesellschaftskapitänsuniformknopf. È questa una parola impronunciabile, forse la più lunga nella lingua tedesca, di ben 83 lettere e con ben poche consonanti, che però vuol dire una cosa precisa che più precisa non si può: “il bottone dell’uniforme del capitano della linea di navigazione a vapore della grande linea di navigazione Reno-Meno-Danubio”9. Similmente la lingua russa si presta molto al misticismo, perché riesce a esprimere in un unica parola complessi concetti e sfumature.

Non si vorrebbe trasmettere l’impressione che questo articolo sia semplicemente una trattazione monografica del pensiero del filosofo Galimberti. Però è indubbio che lo stesso abbia fatto delle considerazioni molto profonde sulle quali occorre soffermarsi con molta attenzione per comprendere alcuni aspetti del mondo in cui viviamo, di cui diversamente non saremmo in grado di comprendere le notevoli implicazioni perché, semplicemente, le ignoriamo dandole troppo per scontate. Quindi anche nelle prossime pagine seguiteremo a menzionarlo per via degli innumerevoli spunti di riflessione che offre a questa trattazione.

Galimberti ha tra l’altro il merito di evidenziare quanto siano importanti le parole, molto più di quanto si sia portati a ritenere10. Infatti è riduttivo sostenere che esse servano solamente a riportare e a esplicitare i pensieri. Semmai è più vero il contrario: noi possiamo pensare solo a ciò che conosciamo, e siccome ogni parola ha una valenza semantica ben precisa, cioè ha un significato proprio, noi possiamo pensare solo a ciò di cui noi sappiamo il significato; e se lo sappiamo è solo col tramite delle parole. “I limiti del mio linguaggio costituiscono i limiti del mio mondo. Tutto ciò che io conosco è ciò per cui ho delle parole”, era solito ripetere il filosofo austriaco Ludwig Wittegenstein11. Non a caso, Dio ha creato il mondo attraverso il Logos, il Verbo, la Parola appunto.

Questo è il motivo per il quale alcune lingue, in cui la singola parola è rivestita di una valenza semantica così forte, risultano più adatte di altre alla filosofia: più si è in grado attraverso una parola di appropriarsi del significato più intimo e profondo di un concetto, come invitava a fare anche Giambattista Vico, più facile diviene dissertare filosoficamente su di esso. Ma ciò comporta a sua volta un’altra fondamentale conseguenza: per riuscire in tutto questo, al fine di migliorare le nostre capacità di pensiero logico-razionale, è imprescindibile essere in possesso di un lessico che sia il più possibile variegato e sperabilmente anche aulico. Detto terra a terra, occorre sapere il significato di quante più parole possibili.

Si diceva poco sopra che l’inglese non è una lingua lessicalmente povera, tutt’altro. Ma indubbiamente lo è dal punto di vista grammaticale: senza coniugazioni e declinazioni, ad esempio, spesso non si è in grado di rendere con pienezza le varie sfaccettature di significato che si vuol dare ad una frase, almeno non tanto compiutamente quanto si riuscirebbe a farlo in altre lingue. È evidente che l’inglese moderno risponde a precise esigenze di semplificazione e di velocità: è – detto altrimenti – una lingua tecnica, pragmatica, snella, in cui si bada al sodo, perché ciò che conta principalmente è il fatto di poter trasmettere un messaggio chiaro e preciso in modo inequivocabile ed il più rapidamente possibile. Che tutto questo possa avvenire a scapito dell’eleganza e della musicalità del linguaggio, o peggio ancora perdendo nel contempo alcune particolari sfaccettature di significato in grado di suscitare peculiari emozioni, beh, questo passa in secondo piano.

Che l’inglese abbia avuto questa grandissima diffusione a livello internazionale in sé non è necessariamente un male. Sapere che, qualora ti ritrovassi dall’altra parte del mondo per affari, turismo o per una qualsivoglia altra ragione, avresti comunque la possibilità tramite esso di poterti intendere con qualcuno la cui lingua nativa è a te totalmente incomprensibile, è sicuramente cosa di grande sollievo. Nessuno pertanto mette in dubbio l’utilità dell’inglese in quanto lingua franca da usarsi negli ambiti più svariati, tanto più che, per via della sua relativa povertà grammaticale, è pure una lingua abbastanza facile da imparare. Quindi il problema non è l’inglese in sé. Il problema è un altro.

Per meglio inquadrarlo, citeremo una profondissima considerazione del Mahatma Gandhi a proposito della dominazione coloniale britannica sull’India: “Dare a milioni di persone la conoscenza dell’inglese significa schiavizzarle. Vale la pena notare che accogliendo l’istruzione in inglese, abbiamo schiavizzato la nazione. […] Siamo stati noi, gli indiani che conoscono l’inglese, ad aver schiavizzato l’India”12. Ovvero, la lingua inglese secondo Gandhi era diventata per l’impero britannico uno dei più efficienti strumenti di colonizzazione e di oppressione, forse il migliore, ancora di più della supremazia militare. Per altro, questa stessa tesi è stata ultimamente riproposta da una delle più brillanti menti del mondo universitario britannico, il professor Robert Phillipson13, autore di un libro che verte appositamente sull’argomento: Linguistic Imperialism14.

Phillipson ricorda innanzitutto come la lingua inglese sia sempre stata uno strumento di dominio da parte dell’Inghilterra sin da quando venne imposta già diversi secoli fa alle popolazioni di lingua gaelica delle isole britanniche, in Cornovaglia, Galles, Scozia ed Irlanda. Phillipson giunge quindi ad una conclusione: “l’inglese globale che molte persone oggi parlano ed in cui scrivono libri, non è una realtà, ma è in effetti un progetto. È un qualcosa che alcune forze nel mondo vogliono realizzare. E questo è in armonia con il principio che ha fatto parte della retorica dell’espansione mondiale negli Stati Uniti di un destino, di un evidente destino naturale, della cultura anglosassone di diffondersi in tutto il mondo”15.

Phillipson, per suffragare questa sua asserzione, prosegue citando una dichiarazione rilasciata al Congresso del 1780 da John Adams16, uno dei padri fondatori degli Stati Uniti nonché primo vicepresidente e secondo presidente degli stessi, sul ruolo programmatico che la lingua inglese avrebbe dovuto avere nel futuro espansionismo americano: “L’inglese è destinato a essere nei prossimi secoli e in quelli successivi la lingua del mondo più di quanto lo sia stato il latino negli ultimi secoli od il francese nell’epoca attuale”. Non stupisce pertanto che l’accademico britannico consideri la sua medesima lingua nativa come parte integrante della dottrina Cheney-Wolfowitz-Rumsfeld elaborata dai neo-con americani dietro il paravento del Progetto per il Nuovo secolo americano sotto Bush II.

Phillipson non manca di fare un’ulteriore precisazione. L’inglese non è solo divenuto strumento dell’egemonia politica, economica, culturale e militare dell’anglosfera, ma è soprattutto la lingua delle élites. Cioè è la lingua della globalizzazione. La globalizzazione, per essere tale, ha bisogno di un substrato culturale omologante. E l’inglese serve soprattutto a questo scopo. Non a caso, Phillipson ricorda anche una dichiarazione dell’ex primo ministro Tony Blair, “La globalizzazione genera interdipendenza, e l’interdipendenza genera la necessità di un sistema di valori comune. La storia è la battaglia secolare tra progresso e reazione, tra coloro che abbracciano il mondo moderno e coloro che ne rifiutano l’esistenza. Secolo dopo secolo, il destino della Gran Bretagna è stato quello di guidare altre nazioni. Questo non dovrebbe essere un destino che fa parte della nostra storia; dovrebbe essere parte del nostro futuro”.

Questo “tedesco andato a male” è diventato dunque il fondamento per questo sistema di valori comuni, e non più una semplice lingua franca da utilizzarsi in maniera neutrale tra persone che diversamente non avrebbero modo di intendersi. Phillipson stesso si chiede se l’inglese, più che una lingua franca, non sia ormai nient’altro che una lingua frankensteinia, o peggio ancora una lingua diabolica17. Arriva addirittura al punto di definirla “cucula”, facendo riferimento al modo di agire tipico del cuculo che, come noto, depone le proprie uova nel nido di altre varietà di uccelli cosicché alla schiusa il loro piccolo, dopo essersi sbarazzato delle altre uova della specie ospite presenti nel nido, trae in inganno i “genitori adottivi” venendo alimentato da loro come se fosse realmente parte della loro progenie.

Ma c’è di più. Non si può che concordare con l’accademico italiano Andrea Zhok per il quale “chi pensa a una lingua naturale come a un vestito neutrale, da indossare a piacimento senza che nulla cambi nella propria personalità e nel proprio pensiero, ha semplicemente un’esperienza della lingua povera, meccanica, circoscritta e meramente tecnica”18. Difatti lingua e cultura non possono essere separate l’una dall’altra. Se lo sono, la lingua diventa solo uno strumento, una cosa. La lingua che ciascuno di noi parla e la cultura a cui si appartiene sono la nostra identità e ci dicono chi siamo, da dove veniamo e dove stiamo andando. Di conseguenza, imporre a chiunque l’uso di una lingua che non ci è propria significa inesorabilmente imporre anche un certo modo di pensare e di agire. Il fatto che l’inglese sia una lingua prettamente tecnica, improntata al pragmatismo e ben poco incline a favorire lo sviluppo di un pensiero filosofico e trascendentale, a sua volta fa sì che nelle persone abituate a parlare e pensare in inglese si potenzi un modo di rapportarsi alla realtà tecnicista ed empirista, quasi freddo e distaccato, per nulla empatico, caratterizzato dal prevalere del profitto sulla base del mero rapporto costi/benefici, e dove niente ha valore in sé se non può essere prima quantificato. Neppure la vita umana.

Ci si ricorderà della tragica sorte toccata alla povera Indi Gregory, la bambina affetta da una grave malattia genetica la cui agonizzante morte è stata decretata da un tribunale britannico che ha ritenuto troppo dispendioso ed economicamente non vantaggioso per le casse dello stato britannico mantenerla in vita attraverso le macchine a cui era attaccata. È questa una vicenda troppo dolorosa per soffermarsi su di essa. Vi sarebbe sicuramente da discutere all’infinito su quanto possa venire considerato etico un potere statale che, con la violenza insita nella legge, sottrae un infante dalle braccia dei genitori per dargli la morte. Perché è questo che è concretamente successo alla piccola Indi e a tanti altri bambini in Gran Bretagna.

Ma dobbiamo fare una riflessione. Per meglio inquadrare ciò che è successo e ciò che tutto questo significa ricorreremo ancora una volta alle parole scritte da Galimberti in un suo libro, L’etica del viandante: “L’Occidente ha due radici: il mondo greco e la tradizione giudaico-cristiana. Per quanto dischiudano orizzonti completamente diversi, entrambi descrivono un mondo dotato di ordine e stabilità. Ma noi viviamo nell’età della tecnica. È finito l’incanto del mondo tipico degli antichi. È finito anche il disincanto dei moderni, che ancora agivano secondo un orizzonte di senso e un fine. La tecnica non tende a uno scopo, non apre scenari di salvezza, non svela la verità: la tecnica funziona”19.

Ecco, così è la lingua inglese: non dischiude la mente al pensiero filosofico e mistico, non invita al trascendentale, non eleva l’individuo a orizzonti superiori di sapere… Però funziona. Funziona quando si tratta di portare avanti una trattativa di affari con una magnate della finanza arabo o cinese; funziona quando vogliamo viaggiare all’altro capo del mondo per goderci una vacanza al caldo sole dei tropici; funziona quando uno sportivo viene intervistato vittorioso al termine di una gara; funziona quando il fan, in attesa trepidante da ore in coda sotto il sole, chiede l’autografo al suo divo di Hollywood preferito; funziona quando uno scienziato, bramoso di fama e riconoscimenti accademici, pubblica un paper speranzoso che venga letto da quanti più membri possibile della comunità scientifica… Funziona. Ma resta pur sempre una lingua tecnica, quindi senza un fine superiore in sé, se non quello di consentire una comunicazione facile e veloce. Ma come la tecnica a cui fa riferimento il filosofo Galimberti, essa non tende ad uno scopo, non apre a scenari di salvezza, non svela la verità.

Diventa dunque consequenziale che un tribunale, sulla base di un mero calcolo costi/benefici, decida di dare la morte ad un infante. Senza un orizzonte superiore ed un fine ultimo a cui convergere, la vita stessa perde di importanza, non ha più un valore in sé, è unicamente uno strumento che, in quanto tale, deve servire a qualcosa; e, come tutti gli strumenti, nel momento in cui non serve più a nulla, anzi, quando incomincia a costare più di quanto non renda, si trasforma automaticamente in un qualcosa di cui non solo si può ma addirittura si deve fare tranquillamente a meno. E pertanto non deve sorprendere che sia diventato lecito decretare che una vita umana, costando troppo alla comunità per essere mantenuta, debba essere soppressa anche se questo comporta strapparla con violenza dalle braccia dei genitori dilaniati dal dolore.

È questo in concreto il mondo dominato dalla tecnocrazia che gli uomini di Davos vogliono per noi. È questa la Technetronic Era che Brzezinski aveva preconizzato oramai più di 50 anni fa. È questa la Quarta rivoluzione industriale che tanto sta a cuore a Klaus Schwab. Si tratta di un mondo in cui la persona smette di essere tale per diventare uno strumento dalle caratteristiche meramente tecniche. E la lingua di questa tecnocrazia non può che essere l’inglese. Di più. L’inglese è anche la lingua più tipicamente funzionale ai regimi democratici. La democrazia, infatti, non ha un scopo superiore da conseguire, una meta ultima da raggiungere, orizzonti nuovi da disvelare, perché è pura massificazione.

Mi rendo conto che questa mia affermazione è difficile da accettare e suscettibile di critiche. Quindi che il lettore prenda questo scritto solo come spunto di riflessione. Viviamo in una società in cui veniamo educati sin dalla più tenera età a considerare la democrazia come il massimo dei valori. Più grandi, non ce ne sono. Anzi, abbiamo fondato la presunta superiorità morale dell’occidente proprio su questo: noi siamo meglio perché abbiamo la democrazia. Per quanto tempo abbiamo accettato che l’occidente a guida americana conducesse guerre in nome dei nostri superiori valori democratici? Non le abbiamo mai apprezzate queste guerre, sapevamo che avrebbero portato morte e distruzione, ma le abbiamo comunque giustificate perché pensavamo che fossero necessarie per conseguire un bene superiore: la democrazia, appunto.

Certo, oggi viviamo nel disincanto perché abbiamo capito di essere stati noi stessi ingannati. Abbiamo nostro malgrado appreso che nessuna di queste guerre è mai stata condotta per la democrazia. Allo stesso tempo ci rendiamo sempre più conto che persino da noi in occidente è improprio parlare di democrazia. Come può esserci reale democrazia nel momento in cui il volere del popolo viene sistematicamente ignorato dalle oligarchie che ci comandano? Noi italiani a tal proposito ne sappiamo parecchio. Quante volte siamo andati alle urne per poi ritrovarci governati da chi non era stato votato? Ed anche adesso che, formalmente, abbiamo un esecutivo che è stato effettivamente votato, questo segue forse il volere del popolo?

Ma il punto è un altro. La democrazia è in apparenza bella; anzi, è quanto di più bello vi sia. Ma a differenza della tecnica e dell’inglese, non può funzionare. E questo non per via del fatto che – come alle anime belle della sinistra piace sostenere – occorrerebbe che gli elettori siano sottoposti ad una sorta di test psico-attitudinale per valutare se hanno gli strumenti intellettuali necessari per recarsi alle urne. No, questo non è altro che l’espressione della proverbiale boria della sinistra la quale, compiacendosi continuamente della sua presunta superiorità morale, non è però capace di accettare che si possano avere opinioni divergenti dalle proprie. Il problema di fondo è che la democrazia è ontologicamente sbagliata perché non persegue come fine ultimo la verità e la giustizia, se non quelle che alla massa – spesso erroneamente – paiono tali.

Il grande filosofo greco Platone è stato uno dei più feroci critici della sacralità del concetto stesso di democrazia. I suoi dubbi nacquero da un evento che turbò profondamente il suo animo: la pena capitale comminata al suo maestro Socrate dalla restaurata democrazia di Trasibulo20. Platone dunque iniziò a porsi degli interrogativi: come fu possibile che Socrate, il più giusto tra gli uomini, sia stato mandato a morte da quella che appariva come la migliore forma di governo?

Per Platone governare dovrebbe essere prima di tutto un’arte, proprio come lo è la medicina. Così come il malato non può che desiderare di farsi assistere da una persona professionalmente adatta e dalle conoscenze assodate, lo stesso auspicio prevale nel cittadino: se pochi individui sono adatti alla professione medica, allo stesso modo pochi hanno la giusta attitudine per gestire la cosa pubblica. Ma secondo il filosofo greco, la democrazia non è altro che il governo delle masse, e quindi degli ignoranti che non hanno alcuna conoscenza e che agiscono secondo opinioni mutevoli e l’interesse di parte. Affidare a loro la cosa pubblica significa attribuire un potere immenso a chi non ha le capacità per gestirlo. Il rischio di questa situazione è sempre la demagogia, che non può sfociare a sua volta che nella tirannia.

Questa concezione critica della democrazia si basa sulla convinzione da parte di Platone che nell’anima delle masse prevalga una parte “concupiscibile”, alla base di tutti gli impulsi materiali. Ecco perché attribuire il potere al popolo sarebbe per lui come legittimare gli impulsi del corpo nel decidere le sorti di una città. Platone non poteva saperlo, ma questo oggi ha un nome ben preciso: si chiama neuro-semantica. Nata come branca a sé stante della PNL, la neuro-semantica è definita come “lo studio di come le parole o le frasi vengono interpretate all’interno della psicologia di una persona e le reazioni complessive che ne derivano. Alcuni esperti definiscono la neuro-semantica come lo studio del modo in cui il significato viene convertito in sentimento”21. Le parole, come abbiamo visto, hanno un significato preciso; ogni significato comporta il sorgere di emozioni in ciascuno di noi; a loro volta, le emozioni che proviamo ci fanno agire di volta in volta in un modo piuttosto di un altro.

Oggi la neuro-semantica si sta imponendo in molti ambiti come tecnica finalizzata all’auto-miglioramento o come metodo di cura per persone sofferenti di gravi patologie psicologiche. Pullulano i corsi di neuro-semantica in cui si promette alle più svariate figure professionali la possibilità di conseguire un accrescimento personale così considerevole da consentire loro di maturare abilità che altrimenti non si pensava di possedere e grazie alle quali affrontare la vita con un piglio tutto nuovo. Questo è sicuramente vero e lodevole, ma non è che uno dei tanti aspetti di questa disciplina. Essa in realtà viene principalmente impiegata nel marketing allo scopo di “vendere di più”, ossia di far sorgere nel potenziale compratore un desiderio così grosso di acquisto da trasformarsi in una vera e propria ossessione. È in altri termini una tecnica manipolatoria di cui ciascuno di noi, più o meno inconsapevolmente, è vittima quotidianamente.

La prima regola di chi pratica la neuro-semantica è la seguente: non si devono usare concetti ma idee, ancora meglio se astratte e virtuali, che però siano in grado di suscitare forti emozioni22. Questo perché i concetti stimolano il pensiero logico-razionale ma il fine ultimo della neuro-semantica, almeno quando viene utilizzata non a fin di bene ma a scopi manipolatori, è al contrario quello di inibire queste facoltà critiche affinché le persone agiscano di pancia, ossia affinché in esse prevalga quella parte concupiscibile di cui parlava Platone. Per riuscirci si fa leva sulle parole prima di tutto, ma anche sulle espressioni, sulle analogie, sul comportamento gestuale, al fine di suscitare nell’interlocutore degli stati emotivi che, limitando la sua componente razionale, siano in grado di trasformare un significato in un’azione. Nel marketing, l’azione che si vuole indurre consiste essenzialmente nello spingere un potenziale acquirente a comprare un prodotto di cui pensava di poter fare a meno. In altri ambiti, purtroppo, significato ben altro (come molti di noi hanno avuto modo di comprendere con chiarezza dal 2020 a questa parte). Tra le emozioni, la più funzionale allo scopo è sicuramente la paura: quanto più si riesce a spaventare a morte le persone, tanto più facilmente si è in grado di indirizzarne comportamento.

Infatti, attraverso le emozioni che le parole sapientemente dosate sanno risvegliare si è in grado di sovraccaricare il sistema limbico – che gestisce le emozioni – facendo sì che esso, in qualche modo, si scolleghi dalla corteccia prefrontale – che al contrario soggiace al pensiero logico-razionale. Più precisamente, il primo è quella parte del cervello che risulta coinvolta “nelle reazioni emotive, nelle risposte comportamentali, nella memoria a breve e a lungo termine, nell’apprendimento, nell’olfatto, nella percezione del tempo, nei meccanismi di motivazione e ricompensa, nel senso di gratificazione derivante dal raggiungimento di un obiettivo e nell’attenzione”23. La seconda al contrario “svolge un ruolo fondamentale nei processi cognitivi e nella regolazione del comportamento e, grazie alle connessioni con diverse aree corticali, risulta essere il substrato neuroanatomico delle funzioni esecutive: pianificazione, attuazione e conclusione di comportamenti diretti ad uno scopo attraverso azioni coordinate e strategiche, integrazione e sintesi di informazioni, organizzazione, regolazione del comportamento emotivo24”.

Stimolando oltre modo in un individuo il sistema limbico, che è anche la sede della decisione, a scapito della corteccia prefrontale, costui, qualora non abbia una certa padronanza di se stesso, subisce un processo neurologico per cui le sue capacità di raziocinio vengono inibite poiché la corteccia prefrontale viene posta nell’impossibilità di vigilare compiutamente sul processo decisionale. Così egli finisce facilmente col perdere la Trebisonda, nel senso che incomincia a prendere decisioni – come si suol dire – di pancia: in definitiva, decisioni prese dal sistema limbico senza la supervisione della corteccia prefrontale. A quel punto può essere facilmente manipolato, gli si può far credere di tutto, indurlo a comportamenti che diversamente avrebbe rifiutato, spingerlo a comportarsi aggressivamente nei confronti del prossimo per mancanza di empatia… Tutte cose queste che abbiamo ampiamente visto succedere negli ultimi anni.

Alla fine, se analizziamo attentamente tutto quanto accade attorno a noi, ci accorgiamo che nulla è per caso, perché tutto è orientato alla neuro-semantica, perfino l’insegnamento dell’inglese. Si è già detto che questa è una lingua che, per la sua natura tecnicista, non favorisce lo sviluppo del pensiero filosofico, ma è molto funzionale quando al contrario si tratta di stimolare le emozioni. Non può essere un evento accidentale che nell’occidente collettivo le gioventù maggiormente woke siano quelle dei paesi anglosassoni, assieme a quelle dei paesi nordici, le cui lingue per certi versi non sono poi così dissimili dall’inglese. Purtroppo la scuola pubblica, dove non a caso l’insegnamento delle lingue classiche è divenuto secondario per far posto all’inglese, non ha più la funzione di educare i ragazzi e di fornir loro i mezzi culturali con cui far progredire in maniera autonoma un pensiero logico-razionale. Senza la cultura che solo la scuola può loro dare, come spesso ripete Galimberti25, essi divengono schiavi delle loro pulsioni primordiali perché ormai incapaci di gestire queste stesse, trasformandole prima in emozioni, e successivamente in sentimenti. E quindi si trasformano in esseri apatici, vuoti, indolenti, abulici, in quanto oramai privati di un fine ultimo al quale sentono di dover convergere.

Tutto attorno a noi è neuro-semantica e solo neuro-semantica. I media ormai non informano più, non danno più notizie, ma presentano i fatti al solo scopo di suscitare nel pubblico emozioni che siano le più forti possibile (il caso di Giulia Cecchettin vi dice forse qualcosa?). La politica non è più politica, cioè non concerne più la scienza e l’arte del governare perché, ancora, l’obiettivo è quello di “fidelizzare” l’elettorato attraverso slogan emozionali che inficiano il pensiero critico dei cittadini. Questa considerazione vale per tutti gli schieramenti politici, ma principalmente per la sinistra (non a caso il vecchio PCI era considerato una vera e propria chiesa laica). Cos’altro sono le continue accuse di fascismo che i sinistroidi rivolgono a tutti coloro che semplicemente non la pensano come loro se non neuro-semantica? Il denigrare il prossimo, tacciandolo di ogni nefandezza, a cominciare da quella di fascismo, non è altro che un modo per farti sentire migliore dell’altro, quasi come se il destino del mondo dipendesse esclusivamente da te: ti stanno infinocchiando, ma tu non solo non te ne accorgi, ma ne sei persino contento, perché ti fanno credere di essere er mejo. Ma questo è proprio l’ABC della neuro-semantica, la tecnica più basilare, ma sempre straordinariamente efficace.

La democrazia stessa – per lo meno nella maniera in cui ci viene proposta – è tutta neuro-semantica: è solo neuro-semantica. Riporto qui sotto un estratto dal libro L’Obsolescenza dell’uomo del 1956 di Günther Anders, pseudonimo di Günther Siegmund Stern, ex marito di Hannah Arendt, sul quale invito il lettore a riflettere con profondità:

“Per soffocare in anticipo ogni rivolta, non bisogna agire violentemente. I metodi come quelli di Hitler sono superati. Basta creare un condizionamento collettivo talmente potente che l’idea stessa di rivolta non verrà nemmeno più alla mente degli uomini. L’ideale sarebbe formattare gli individui fin dalla nascita limitando le loro abilità biologiche innate. In secondo luogo, si prosegue il condizionamento riducendo drasticamente l’istruzione, per riportarla ad una forma di inserimento professionale. Un individuo ignorante ha solo un orizzonte di pensiero limitato e più il suo pensiero è limitato a preoccupazioni mediocri, meno può ribellarsi. Occorre garantire che l’accesso alla conoscenza diventi sempre più difficile ed elitario. Che il divario si aggravi tra il popolo e la scienza, che le informazioni destinate al grande pubblico siano anestetizzate da qualsiasi contenuto sovversivo. Soprattutto niente filosofia. Anche in questo caso bisogna usare la persuasione e non la violenza diretta: diffonderemo massicciamente, attraverso la televisione, intrattenimento lusinghiero sempre l’emotivo o l’istintivo. Faremo gli spiriti con ciò che è inutile e divertente. È buono, in una chiacchierata e in una musica incessante, evitare che lo spirito pensi. Metteremo la sessualità in prima fila negli interessi umani. Come tranquillante sociale, non c’è niente di meglio. In generale, si farà in modo di bandire la serietà dell’esistenza, di trasformare in derisione tutto ciò che ha un valore elevato, di mantenere una costante apologia della leggerezza; in modo che l’euforia della pubblicità diventi lo standard felicità umana e modello di libertà. Il condizionamento produrrà così da sé una tale integrazione, che l’unica paura – da mantenere – sarà quella di essere esclusi dal sistema e quindi di non poter più accedere alle condizioni necessarie alla felicità. L’uomo di massa, così prodotto, deve essere trattato come quello che è: un vitello, e deve essere sorvegliato come deve essere un gregge. Tutto ciò che permette di addormentare la sua lucidità è socialmente buono, ciò che minaccia di svegliarla deve essere ridicolizzato, soffocato, combattuto. Ogni dottrina che mette in discussione il sistema deve essere prima designata come sovversiva e terrorista e chi la sostiene dovrà poi essere trattato come tale”.

Ecco, chiediamoci con sincerità: cosa è concretamente oggi divenuta la democrazia? “È il giardino dell’Eden”, ci viene spesso risposto. Sì, in qualche modo lo è veramente; ma solo nella misura in cui questo giardino dell’Eden, lungi dall’essere un luogo davvero paradisiaco, viene considerato piuttosto alla stregua di una una gabbia dorata, o per meglio dire di un recinto dorato, in cui l’uomo viene trattato nella maniera indicata da Anders: come un vitello che viene sorvegliato in un gregge.

Il lettore potrà obiettare: “Si, ok, quello che dici sulla democrazia può anche essere giusto e condivisibile. Ma… le alternative? Che alternative proponi? In fin dei conti, la democrazia si è rivelata se non la migliore, quanto meno la meno peggiore forma di governo che la storia umana abbia mai conosciuto, tanto da garantirci negli ultimi decenni una qualità di vita incomparabile rispetto alle epoche precedenti”. Giusta obiezione.

Beh, io risposte da dare non ne ho. Intuisco semplicemente che la democrazia ha in sé qualcosa di profondamente sbagliato o comunque di incompleto e volevo semplicemente condividere questo mio sentimento coi lettori. Però ho capito una cosa. Abbiamo precedentemente menzionato il libro di Umberto Galimberti, L’etica del viandante. Egli precisa perché ha usato questa parola, viandante: “A differenza del viaggiatore il viandante non ha meta. Il suo percorso nomade, tutt’altro che un’anarchica erranza, si fa carico dell’assenza di uno scopo. Il viandante spinge avanti i suoi passi, ma non più con l’intenzione di trovare qualcosa, la casa, la patria, l’amore, la verità, la salvezza. Cammina per non perdere le figure del paesaggio”. Questo è il vero limite della democrazia a mio modo di vedere: è il regime politico che si confà maggiormente al viandante, e non al viaggiatore, mancando una meta finale a cui giungere, un orizzonte superiore, uno scopo supremo su cui far convergere l’intera propria esistenza. Questo alla lunga, in maniera ineluttabile, non può che portare alla massificazione, all’appiattimento dei valori, alla riduzione al minimo comun denominatore, all’omologazione più spinta. E quindi all’apatia, all’invidia e a quel male di vivere che caratterizza così fortemente i tempi in cui viviamo.

Hanno fatto scalpore tempo addietro le dichiarazioni di Josep Borrell, ministro degli esteri della UE, per il quale l’Europa sarebbe un giardino circondato dalla giungla:

Borrell, tecnocrate che certo non amo, ha comunque detto qualcosa che mi sento di apprezzare. Infatti è stato attaccato da più parti. Però ha ragione: l’Europa è un giardino. O meglio, lo era, oggi non più. Oggi è un recinto, quello di Anders. Lo era veramente, questo giardino, l’Europa. Ma lo era quando possedeva questo orizzonte di senso che però fu perso a seguito della rivoluzione francese e degli eventi che ne scaturirono. Questi hanno imposto all’umanità il credo della dea ragione, la quale ha però svuotato la vita degli uomini – bella o brutta che fosse non importa – di questo stesso orizzonte di senso superiore. Il celebre motto rivoluzionario, liberté, égalité, fraternité, non è stato altro che una manifestazione ante litteram di neuro-semantica. Infatti la libertà che i rivoluzionari giacobini avevano promesso non è stata raggiunta pressoché da nessuna parte. Ci può forse essere vera libertà quando essa è disgiunta dalla coscienza? Peggio ancora, “in nome di questa libertà che doveva giungere dalla ragione umana, è nata la più grande delle schiavitù: la schiavitù dell’imperio delle menti che vogliono servirsi dell’ignoranza degli uomini per dominarli ed asservirli al loro volere”.

In conclusione di questo lungo articolo, un’ultima puntualizzazione. Non ha importanza, almeno per me, in quale regime politico si viva. Non ho questo grande interesse verso la politica; ho anche deciso di non andare più a votare. Ciò che conta, a mio giudizio, è che si abbia una finalità, che si abbiano scenari di salvezza, che si ricerchi la verità, la regalità, la nobiltà d’animo. E per riuscire nell’intento, occorre che il viandante ritorni ad essere viaggiatore. Pur con tutti i suoi limiti e le sue sofferenze, l’Europa è stata grande quando ancora, paradossalmente, non c’era la democrazia. Ma perché noi allora eravamo viaggiatori, e non viandanti. Diversamente, il nostro destino rischia di diventare questo:

1https://www.ilsole24ore.com/art/unfpa-onu-entro-giugno-popolazione-india-superera-quella-cina-AEUxZFJD

2https://www.eurac.edu/en/blogs/eureka/it-linglese-come-lingua-franca

3https://it.wikipedia.org/wiki/Attribuzione_delle_opere_di_Shakespeare#Michelangelo_Florio

4https://www.focus.it/cultura/curiosita/qual-e-la-lingua-moderna-che-ha-piu-vocaboli

5https://www.antoniosocci.com/gli-angeli-nel-cielo-parlano-italiano-thomas-mann/

6https://it.wikipedia.org/wiki/Umberto_Galimberti

7https://www.youtube.com/watch?v=ssuMkz88Y0E

8https://it.wikipedia.org/wiki/Lingua_inglese_media

9https://it.wikipedia.org/wiki/Lingua_tedesca

10https://www.facebook.com/watch/?v=4305206346236140&paipv=0&eav=Afa4LiN7qvNAbZJzOFMSRrBxZuijTeeGzAo3cUmjazAvxR2QQTEVwpZqFFhe_87M_Iw&_rdr

11https://it.wikipedia.org/wiki/Ludwig_Wittgenstein

12https://www.youtube.com/watch?v=ul9Hq5owy_Y

13https://it.wikipedia.org/wiki/Robert_Phillipson

14https://it.wikipedia.org/wiki/Imperialismo_linguistico

15https://www.youtube.com/watch?v=YMxJKHQBUZs

16https://it.wikipedia.org/wiki/John_Adams

17https://www.researchgate.net/publication/227725186_Lingua_franca_or_lingua_frankensteinia_English_in_European_integration_and_globalisation1

18https://diciamoloinitaliano.wordpress.com/2021/09/06/gli-effetti-collaterali-dellinglese-internazionale-e-il-caso-islanda/

19https://www.orizzontescuola.it/galimberti-eliminiamo-la-filosofia-dalla-scuola-cosi-la-gente-diventa-piu-stupida-e-non-si-fa-le-domande/

20https://it.wikipedia.org/wiki/Trasibulo_di_Atene

21https://spiegato.com/che-cose-la-neurosemantica

22https://www.youtube.com/watch?v=e2bDw5CcSbY&t=394s

23https://www.my-personaltrainer.it/salute-benessere/sistema-limbico.html#:~:text=e%20nell%27attenzione.-,Cos%27è%20il%20Sistema%20Limbico%3F,corteccia%20cerebrale%20del%20lobo%20temporale.

24https://www.centroleonardo-psicologia.net/blog-centroleonardo/l-importanza-della-corteccia-prefrontale.html

25https://issuu.com/professionesanita/docs/brain_aprile_2023/s/22878581