«Un giorno d’inverno, rientrando a casa, mia madre, vedendomi infreddolito, mi propose di prendere, contrariamente alla mia abitudine, una tazza di tè. Dapprima rifiutai, poi, non so perché, cambiai idea. Mandò a prendere uno di quei dolci corti e paffuti, chiamati Petites Madeleines, che sembrano modellati nella valva scanalata di una conchiglia di San Giacomo. E subito, meccanicamente, oppresso dalla giornata uggiosa e dalla prospettiva di un triste domani, mi portai alle labbra un cucchiaino di tè dove avevo lasciato ammorbidire un pezzetto di Madeleine. Ma, nello stesso istante in cui quel sorso frammisto alle briciole del dolce toccò il mio palato, trasalii, attento a qualcosa di straordinario che accadeva dentro di me. Un piacere delizioso mi aveva invaso, isolato, senza nozione della sua causa. Di colpo, m’aveva reso indifferenti le vicissitudini della vita, inoffensivi i suoi disastri, illusoria la sua brevità, allo stesso modo in cui agisce l’amore, colmandomi di un’essenza preziosa: o meglio, questa essenza non era in me, era me stesso. Avevo cessato di sentirmi mediocre, contingente, mortale. Donde mi era potuta venire questa gioia potente? Sentivo che era legata al sapore del tè e del dolce, ma lo sorpassava incommensurabilmente, non doveva essere della stessa natura. Donde veniva? Che significava? Dove afferrarla?»
Questo è probabilmente il passo più celebre di À la recherche du temps perdu, il romanzo per il quale è universalmente noto lo scrittore francese Marcel Proust. Il sapore di una Madeleine, tipico dolce della viennoiserie francese, scatena nel narratore un’inaspettata epifania che lo induce ad abbandonarsi ai ricordi della sua infanzia allorquando, durante il periodo delle vacanze, era solito recarsi la domenica mattina dalla zia che immancabilmente gliene offriva una a colazione. Ciò che il narratore del romanzo prova assaggiando questo particolare tipo di dolciume prende in filosofia un nome ben preciso: qualia. I qualia sono definiti come gli “aspetti qualitativi delle esperienze coscienti”1. Si tratta cioè dell’insieme di emozioni e sentimenti generati da un’esperienza sensoriale, quale appunto la degustazione di un dolcetto. I filosofi designano i qualia come ineffabili, perché relativi solamente al soggetto che li esperisce; intrinseci, in quanto elementi semplici non riducibili a null’altro: privati, poiché propri unicamente del soggetto che li esperisce e pertanto non comparabili con quelli provati da altri soggetti; apprensibili direttamente o immediatamente nella coscienza, trattandosi di esperienze immediate proprie della coscienza.
Ai fini della nostra trattazione i qualia rivestono un’importanza cruciale perché sono l’elemento alla base del cosiddetto problema difficile della coscienza2, cioè il problema che sorge quando ci si chiede come sia possibile che i processi cerebrali che avvengono nel nostro organismo e che sono di natura prettamente fisico-biologica, possano generare fenomeni propri di una realtà soggettiva che sono necessariamente di natura non fisica e quindi qualitativamente di tipo diverso rispetto ai segnali biochimici corporali. Eppure i qualia vengono generati da queste stesse manifestazione di carattere fisico ma finiscono paradossalmente, ma inesorabilmente, con l’esercitare una certa forma di controllo su di queste. In poche parole: come è possibile che la coscienza, che in teoria è quanto di più sfuggente ed immateriale esista, possa nascere dalla materia?
“Quello della coscienza rappresenta il più sconcertante problema per la scienza della mente. Non c’è nulla che non si conosca più intimamente dell’esperienza cosciente, e però niente che sia più difficile da spiegare. In epoca recente tutti i fenomeni mentali si sono lasciati analizzare, ma la coscienza ha resistito ostinatamente. Molti hanno cercato di fornire spiegazioni, ma esse sembrano sempre non essere all’altezza dell’obiettivo”, così si è espresso il filosofo australiano David Chalmers3, tra i pensatori che maggiormente si sono interessati al problema difficile della coscienza.
Negli ultimi secoli, soprattutto a partire dalla cosiddetta Età dei Lumi, si è imposta una visione meramente positivista e riduzionista della fisica classica newtoniana la quale, in tempi recenti, è sfociata nel cosiddetto fisicalismo, ossia “la dottrina secondo cui tutto ciò che è reale è composto di materia e che la mente (che è reale) è pertanto riducibile alla materia”4. Indiscutibilmente non possiamo non annoverare tra i più ferventi sostenitori di quest’ultima corrente filosofica il delfino di Klaus Schwab, il mefistofelico Yuval Noah Harari, dal momento che egli propone la seguente visione dell’essere umano:
«gli organismi sono algoritmi e gli umani non sono individui, essi sono ‘divisibili’. Ovvero gli umani sono un assemblaggio di molti algoritmi differenti privi di un’unica voce interiore o di un singolo sé. Gli algoritmi che costituiscono un umano non sono liberi. Sono plasmati dai geni e dalle pressioni ambientali, e prendono decisioni in maniera deterministica o a caso, ma non liberamente. Un algoritmo che monitora ciascuno dei sistemi attivi nel mio corpo e nel mio cervello potrebbe sapere chi io sia realmente, come mi senta e che cosa desideri. Una volta sviluppato, un algoritmo del genere potrebbe sostituire l’elettore, il consumatore e l’osservatore»5.
Insomma, secondo il suo parere l’essere umano altro non è che un computer, un’intelligenza artificiale, una macchina che, in quanto tale, può essere hackerata. Personalmente, mi sento di poter dire che si sbaglia. Grazie al Cielo! L’uomo non può essere una macchina, un semplice assemblaggio di algoritmi. Il motivo di questa negazione? I qualia. Il fatto stesso che l’assaggiare un dolcetto, come avviene in À la recherche du temps perdu, susciti un tourbillon di sentimenti e di emozioni che travolgono come il mare in tempesta la coscienza del narratore, testimonia del fatto che ciò che chiamiamo vita non ha solo un fondamento materiale. L’uomo in nessun caso può essere considerato come la somma delle sue parti. Il computer sì, ma l’uomo no.
Semplificando, un computer è composto da un hardware, la sua parte tipicamente materiale, e da un software, la sua parte intangibile (ma pur sempre fisica). Quest’ultimo è l’insieme dei programmi – ovvero la sequenza dei comandi scritti in un particolare tipo di linguaggio chiamato booleano – senza cui il primo non è in grado funzionare. In un computer, sotto la direzione del software, l’hardware ha il compito di svolgere determinate funzioni in maniera meccanica. Fondamentalmente la macchina deve distinguere in ognuno dei suoi nodi informativi tra due diversi stati, “0” ed “1”, cioè di riconoscere dei simboli. A seguito di questo riconoscimento, la macchina eseguirà una funzione piuttosto di un’altra. Ma il simbolo non va confuso col significato. Il computer conosce tramite simboli e non è tenuto a sapere cosa significhino lo stato “0” o lo stato “1”. Si limita a riconoscerli come tali. Ma la vera conoscenza, come vedremo tra poco, non può prescindere dal significato.
Nella lingua italiana i verbi sapere e conoscere spesso vengono utilizzati come sinonimi. In realtà, vi è una differenza semantica molto consistente tra i due che dipende dal modo in cui un’informazione od una nozione vengono apprese6. Il verbo sapere implica un apprendimento di tipo passivo, per esempio quando si dice “essere venuto a conoscenza di…”. In questo caso è preferibile evitare di utilizzare il verbo conoscere. Quest’ultimo invece è da usarsi quando l’apprendimento comporta un’azione di tipo attivo, magari a seguito di studio, lettura od approfondimento.
Le macchine quindi sanno, ma non conoscono. Sanno riconoscere dei simboli e quindi svolgere funzioni specifiche di conseguenza. Ma non conoscono, perché la vera conoscenza comporta un ulteriore passaggio che le macchine non sono in grado di fare: dare significato ai simboli a seguito di un’elaborazione cosciente. Potremmo persino asserire che una macchina sa, ma senza sapere di sapere e senza nemmeno sapere che cosa significhi sapere. Il suo è un sapere di tipo inconscio e meccanico; è semplicemente un’informazione fatta di simboli senza significato, che possono essere collegati meccanicamente a qualche azione deterministica. Perciò, le azioni del robot non implicano scelte libere e consapevoli. Al contrario, l’uomo conosce attraverso il significato che è egli stesso in grado di conferire ai simboli che apprende. E questo può avvenire solo col tramite dei qualia, o per meglio dire grazie alla coscienza con cui li elabora. La “conoscenza” delle macchine è quindi un’informazione oggettiva che può essere copiata e condivisa; quella umana, quella vera, è invece un’esperienza soggettiva e privata che si verifica nell’intimità di un ente cosciente.
Per aiutare ad una migliore comprensione, facciamo un esempio concreto basato su una comune esperienza sensoriale: non più il gusto, come nel caso delle Madeleines di À la recherche du temps perdu, ma l’olfatto, magari l’odore di una rosa. Che cos’è, da un punto di vista prettamente fisico (ovvero fisicalista), un odore? Sostanzialmente è un insieme di particolari molecole di natura chimica che, entrando nei recettori presenti nel naso a mo’ di una chiave nella sua peculiare serratura, inducono in essi uno stimolo specifico. Ad esempio, nel caso della rosa, il suo odore è dato da una sostanza chiamata alfa-beta damacenone7. Questo stimolo, a sua volta, si traduce in un segnale elettrico che viene inviato attraverso le vie nervose ad una specifica zona del nostro cervello dove viene decodificato e quindi associato ai segnali delle varie sostanze in esso già registrate.
Oggi si dispone di macchine che, una volta provviste di appositi sensori e del corretto insieme di programmi, hanno la facoltà di svolgere altrettanto efficacemente, se non addirittura meglio, il compito del naso umano, identificando tra migliaia di odori quello proprio di una rosa. Ma c’è una differenza fondamentale: per l’intelligenza artificiale l’odore di una rosa resta pur sempre solo un simbolo che essa deve riconoscere come tale, mentre per l’uomo la fragranza del fiore può essere qualcosa di più perché in grado di innescare delle emozioni e dei sentimenti, i qualia, che la macchina non può provare.
Succede cioè quanto schematicamente rappresentato qua sotto:
Alla macchina sono possibili solo i primi passaggi sopra delineati, quelli relativi ai processi fisiologici. Ma quelli psicologi sono prerogativa esclusiva dell’essere umano; in lui avviene un processo ancora oscuro mediante il quale i segnali neuronali vengono trasformati in qualia, cosa questa che non può succedere in una macchina nella quale un segnale elettrico resta sempre un segnale elettrico, non potendo generare che un altro segnale elettrico od al più forza e movimento.
Ma l’essere umano compie in realtà un passaggio ulteriore, quello che sottende alla vera e più piena comprensione della realtà: si tratta di dare un’interpretazione semantica conclusiva all’esperienza sensoriale compiuta, dando cioè un significato preciso ai qualia. Senza questo passo, la conoscenza umana rimarrebbe limitata ed incompleta. E questo ulteriore passaggio può concretizzarsi solamente attraverso una coscienza che operi in connessione con tutto il nostro vissuto personale ed esclusivo, il quale a sua volta dipende giocoforza dal nostro passato, da tutte le esperienze che abbiamo fatto, dalle vicissitudini affrontate, dalle difficoltà patite, ecc… Questo significa in ultima istanza conoscere: dare significato a ciò che apprendiamo partendo dalla nostre soggettività ed interiorità. Altrimenti sapremmo e basta, ma senza realmente conoscere. Il nostro sarebbe solo un sapere simbolico: appunto, un sapere meccanico, tipico di un’intelligenza artificiale ma non degna di un essere umano in quanto tale.
Proust, nel passo sopracitato, attraverso una narrazione poetica ed altamente evocativa, ci mostra in cosa consista questa vera e più piena conoscenza: il narratore, ricolmo d’amore, supera l’illusorietà della vita e si sente connesso, in una maniera mai provata in precedenza, con un Uno superiore di cui si sente pienamente partecipe. E tutto questo per via di un dolcetto! Ma è questo particolare sapore che suscita in lui quelle straordinarie emozioni che sorgono sulla base di ricordi personali che credeva perduti. Ed è la sua coscienza che, agendo sulla sua persona in maniera inconsapevole, lo induce a quest’epifania attraverso la quale dà nuovi significati al suo vissuto e ne apprende di altri con cui affronterà il futuro.
Giunti a questo punto, quali conclusioni possiamo trarre da tutto quanto sopra esposto? Beh, prima di tutto, una buona notizia: Harari è in errore. L’intelligenza artificiale non sostituirà mai l’uomo, la cui stessa esistenza non può essere ridotta ad un’esperienza puramente algoritmica. Tuttavia, è anche il caso di dire che forse non c’è motivo per essere così pienamente ottimisti. Abbiamo già visto – anzi lo vediamo tutti i giorni – come i davosiani non si diano per vinti e non intendano recedere dal proposito di ridurre l’umanità intera alla loro mercé. E pare che abbiano trovato diversi espedienti per riuscirci8. Peggio ancora, occorre convenire che esiste, nostro malgrado, una certa parte di umanità la cui passività ci lascia sconcertati. Paiono non persone dotate di una soggettività volitiva, ma individui abulici, immobili, indolenti, la cui natura sembra votata alla sottomissione, quasi come se fossero privi di coscienza e di libero arbitrio: non uomini, ma ovini belanti, che non hanno altra aspirazione nella vita che pascersi in un campo che altro non è che il mondo edonista, fatto di rozzezza e materialità, in cui la società post-moderna li ha confinati sotto lo sguardo vigile ma inflessibile del cane pastore.
Esistono persone del genere. È innegabile. Non possiamo fare finta che non sia così. Ma chi sono? In che maniera inquadrarli? Cosa potrebbe mai spiegare questa loro apatia? E come definirli? Per quanto concerne quest’ultima domanda, non c’è che un modo per chiamarli: zombie. Ovviamente, non sono zombie alla maniera dei film horror. Non si tratta certo di creature mostruose e deformi, con la caratteristica di essere dei morti viventi che vagano con incedere lento ed impacciato alla ricerca di carne umana di cui cibarsi. No, essi sono piuttosto da intendersi come zombie filosofici, così come sono stati definiti proprio dal succitato David Chalmers nel corso di una querelle con i teorici del fisicalismo.
Lo zombie filosofico ipotizzato da Chalmers è un essere in apparenza del tutto simile a noi, perché parla come noi, cammina come noi, mangia e beve come noi, si comporta come noi, si diverte come noi. Può risolvere problemi complessi, avere una brillante carriera lavorativa, esprimere gioie e dolori, dirsi meravigliato ed entusiasta per la magnificenza del sole al tramonto sul mare, discettare amabilmente di argomenti profondi, scrivere romanzi e poesie malinconiche su donne di cui si è invaghito… Insomma, è indistinguibile da noi perché fa esattamente le stesse cose che facciamo noi. Eppure, malgrado tutte le apparenze, c’è una profonda differenza tra lo zombie e noi: questo essere non ha esperienza soggettiva.
In realtà, non è in grado di percepire intimamente lo splendore del sole davanti al cui tramonto dice di essersi emozionato; non è in grado di fare propri, dando così loro un seguito, i contenuti profondi di cui ha lungamente dibattuto con gli amici con un’apparente cognizione di causa; di provare egli stesso, sulla sua pelle, quella malinconia e quello spleen che pure sono le caratteristiche salienti dei personaggi protagonisti dei suoi romanzi. Tutti gli stati mentali che egli riferisce di avere e che teoricamente ne determinerebbero il comportamento (credenze, ricordi, desideri, congetture, ragionamenti, etc.) non sono accompagnati da alcuna esperienza veramente soggettiva. Nello zombie non c’è alcuna vita interiore.
In realtà, Chalmers non ha mai detto che gli zombie esistono per davvero. Egli ne ha ipotizzato l’esistenza in via puramente teorica al solo scopo di confutare le teorie dei fisicalisti. È insomma un paradosso. Infatti, nel momento in cui possiamo immaginare che un comportamento, per essere definito umano, non necessita tassativamente dell’effettiva presenza di una coscienza volitiva, il fatto stesso che accanto a persone che ne sono dotate possano agire degli altri esseri in tutto e per tutto simili a loro, fatta eccezione per la capacità di vivere una propria interiorità, dimostra che la coscienza stessa non è prerogativa della sola materia. Altrimenti chiunque tra di noi, per la semplice ragione di essere fatto di carne e ossa, ne possederebbe una; e gli zombie non esisterebbero.
Tuttavia, per quanto per Chalmers gli zombie siano solo un costrutto mentale, uno strumento teorico utile per supportare alcune sue argomentazioni, in definitiva una sorta di ballon d’essai, gli zombie esistono veramente. Almeno, questa è una nostra personale opinione. Esistono realmente degli individui privi di interiorità. E quanto dibattuto nelle pagine precedenti ci è utile per inquadrare questo fenomeno. Sostanzialmente sono persone a cui – per deficienze loro proprie che andremo a specificare meglio nel prosieguo dell’articolo – è impossibile portare a compimento quel processo di conoscenza che abbiamo sopra delineato. Sono sì capaci di avere delle esperienze sensoriali, di elaborarle e di ricavarne dei qualia. Ma manca loro il passaggio fondamentale: quello che afferisce all’attribuzione di significato ai qualia. Vivono una vita come chiunque altro, ne ricavano dei qualia ma alla fine si rivelano incapaci di procedere alla giusta interpretazione di questi ultimi, difettando di interiorità.
Cionondimeno, questo non preclude allo zombie la possibilità di eccellere in ambito lavorativo, di togliersi più di una soddisfazione nella vita, di essere apprezzato e perfino invidiato per i propri raggiungimenti. Dunque essere uno zombie non significa necessariamente essere stupido e cattivo, amorale, cinico, spietato, grossolano o perdigiorno. Significa prima di tutto non essere in grado di conseguire una conoscenza della realtà che sia la più vera e piena possibile. La sua è una conoscenza superiore a quella dell’intelligenza artificiale, che per definizione non può provare emozioni e sentimenti in quanto macchina; ma resta pur sempre inferiore, in qualche misura, a quella di un essere umano dotato di interiorità, essendo quest’ultima il vero elemento discriminante in quel complesso processo che prende il nome di intelligenza.
È infatti quella dello zombie una conoscenza più simbolica che semantica. Quando lo zombie parla, anche se può inizialmente ammaliare per l’uso di termini ricercati e di un linguaggio assai aulico, parla sempre per simboli, ma mai per significati. Le parole infatti sono simboli, evoluti, ma pur sempre simboli. I suoi discorsi, pur in apparenza brillanti, si rivelano alla fine come una semplice sequenza di belle parole ma assolutamente fini a se stesse. Quante volte ci è capito una cosa del genere? Di ascoltare, ad esempio, un discorso tenuto da un qualcuno a cui riconosciamo il merito di saper parlare bene ma dopo il quale ci siamo chiesti: “Ma che ha detto? Non ci ho capito nulla”. Questo probabilmente è successo proprio perché non ci sono stati comunicati significati, ma solo simboli. E noi conosciamo più intimamente coi significati piuttosto che coi simboli. Ed è questa la stessa situazione che abbiamo vissuto chissà quante volte a scuola con quel compagno di classe che prendeva sempre dei bei voti ma solo perché, avendo imparato la lezione a memoria, la ripeteva a pappagallo davanti al professore, senza però dare l’impressione di averla rielaborata e fatta propria.
Essere uno zombie non è però senza conseguenze. Prima di tutto, lo zombie tenderà a ripetere all’infinito gli stessi errori. “Sbagliare è umano, perseverare è diabolico”, si suole dire. Niente di più vero. Questo succede perché lo zombie non è in grado di attribuire compiutamente significato alle esperienze che lui stesso vive. Se sbaglia, e continua a sbagliare, non è perché è stupido; semplicemente, privo della necessaria interiorità, non è capace di elaborare gli sbagli che commette al fine di trarne il giusto insegnamento. Seguiterà a commettere gli stessi errori perché questi gli appariranno senza significato. Ma soprattutto, il pericolo più grave in cui lo zombie può incorrere è quello, per così dire, di scambiare la mappa per il territorio, cioè di confondere la sua personale rappresentazione della realtà per la realtà stessa. Come abbiamo detto, noi possiamo conoscere la realtà attraverso i simboli; ma se non siamo in grado di interpretare questi stessi, dando loro il significato che meritano in quanto simboli, non solo non arriveremo mai a conoscere la realtà ma finiremo piuttosto col pensare che essi siano la realtà. In ultima istanza, questo è ciò che si chiama dissonanza cognitiva.
A questo punto, non ci resta che chiederci cosa ci sia all’origine del fenomeno zombie. Sì, è già stato anticipato che tutto dipende dall’incapacità di avere una vera e completa esperienza soggettiva. Ma da che cosa dipende questa a sua volta? Per rispondere al quesito, ci può essere d’aiuto il grande psicologo svizzero Carl Gustav Jung9. È dunque necessario introdurre alcuni dei concetti chiave del suo pensiero, quali Sé, Io ed individuazione. Ed è proprio quanto faremo nel prosieguo dell’articolo.
- 1 https://it.wikipedia.org/wiki/Qualia
- 2 https://it.wikipedia.org/wiki/Problema_difficile_della_coscienza
- 3 https://it.wikipedia.org/wiki/David_Chalmers
- 4 https://it.wikipedia.org/wiki/Fisicalismo
- 5 https://www.ilfattoquotidiano.it/2022/06/05/gli-umani-del-futuro-un-coacervo-di-algoritmi-la-prospettiva-di-yuval-noah-harari-fa-riflettere/6614932/
- 6 https://learnitalianwithlucrezia.blog/2018/02/11/sapere-o-conoscere/#:~:text=Tutto%20dipende%20da%20come%20è,eccetera%20–%20usiamo%20il%20verbo%20conoscere.
- 7 https://www.focus.it/scienza/scienze/cosa-sono-e-come-si-diffondono-gli-odori
- 8 https://www.orazero.org/la-coscienza-epilogo/
- 9 https://it.wikipedia.org/wiki/Carl_Gustav_Jung