Jung suddivide la psiche umana nella sua totalità nella sua parte conscia, ovvero la coscienza propriamente detta, e la sua parte inconscia, costituita dall’inconscio personale e da quello collettivo. Il Sè per Jung riveste un ruolo basilare perché è al contempo sia il centro stesso della psiche sia il perimetro all’interno del quale inquadrarla (ma non solo, come vedremo tra poco). L’Io, altrimenti detto Ego, invece costituisce il nucleo centrale della parte conscia. L’Io è quindi inglobato all’interno del Sé.
Il processo di individuazione parte da un presupposto fondamentale: che esista negli uomini fin dal principio un’individualità, un qualcosa di unico, esclusivo ed irripetibile, che distingue e caratterizza ognuno di loro rispetto a tutti gli altri. L’individuazione è quel processo che porta l’uomo a riscoprire questa sua innata individualità, che altro non è che il suo Sé. Questo può avvenire solo attraverso uno sviluppo di consapevolezza che si realizza rendendo conscio l’inconscio, ossia riconoscendo innanzitutto che esiste una parte di noi inconscia e che quindi è necessario comprenderne i contenuti e portarli gradualmente alla coscienza. Con l’individuazione, tramite ciò che Jung chiama il divenire del Sé, l’individuo matura e sviluppa al massimo del proprio potenziale la personalità che ha sempre posseduto, divenendo quel tipo di persona che sarebbe dovuta essere sin dalla nascita.
Ciò che facilita l’individuazione è una particolare guida interiore, un elemento ordinatore innato in ogni individuo che svolge un compito di coordinamento in questo processo di maturazione psicologica. Questo principio ordinatore è il Sé, sempre lui!. Il Sé pertanto non costituisce solo il centro ed i limiti della psiche, ma soprattutto è lo scopo ultimo della nostra vita psichica nonché ciò che rende possibile il suo raggiungimento! Ciò si realizza attraverso lo spostamento progressivo dell’Io verso il Sé, verso il nucleo centrale della psiche dell’individuo: più la coscienza si sviluppa, più l’Io si avvicina al Sé.
Per Jung l’individuazione in un individuo è possibile solo nella seconda parte della sua vita, dopo che ha raggiunto un certo grado di maturazione psicologica. Durante la prima parte della sua esistenza egli è tenuto principalmente a sviluppare un Io solido, adattandosi ed inserendosi nell’ambiente a cui appartiene e facendo suoi le immagini, gli stereotipi e le norme collettive su cui quest’ultimo si fonda. Questa fase è chiamata da Jung iniziazione alla realtà esterna. L’individuazione vera e propria invece è un’iniziazione alla realtà interna, dove l’individuo riscopre il suo vero Sé differenziandosi all’interno della collettività di appartenenza. Il passaggio da un’iniziazione esterna ad una interna è quasi sempre un passaggio traumatico, proprio perché si tratta di mettere in discussione l’Io che tanto faticosamente ci siamo costruiti durante i primi anni della nostra vita.
A questo punto della nostra trattazione, possiamo già fare una prima e fondamentale considerazione. Sulla base di quanto fin qui enunciato, appare ora evidente che quell’elemento legato alla soggettività di una persona che rende possibile la piena comprensione della realtà non è altro che il Sé, inteso proprio in senso junghiano. Esso è infatti alla base dell’interiorità e dell’individualità di ciascuno di noi. Il Sé è ciò che in ultima istanza chiamiamo coscienza soggettiva, essendo il fondamento dell’unicità della nostra personalità. Pertanto dobbiamo dedurre che senza un Sé sufficientemente sviluppato, senza questo divenire del Sé che è il fulcro del pensiero junghiano, non saremmo in grado di conferire alle nostre esperienze sensoriali quella corretta interpretazione semantica che sola può dare significato alla realtà che sperimentiamo. Da qui, possiamo arrivare ad un’altra conclusione: che coloro che definiamo zombie filosofici non sono altri che individui il cui processo di individuazione non è giunto a compimento.
Resta pertanto da chiedersi quali possano essere quei fattori contingenti che influiscono negativamente sull’individuazione, impedendo alla persona, con il risveglio del Sé, di riscoprire appieno la propria individualità. Ed è a questo punto che entra in gioco l’Io. Come detto, l’Io costituisce il nucleo centrale della parte conscia della psiche umana ma è soprattutto quell’istanza psichica incaricata del contatto e dei rapporti con la realtà, favorendo l’adattamento al mondo circostante. Questa funzione viene espletata attraverso la polarità. L’Io si instaura a partire da una serie di contrapposizioni con il mondo esterno e con quello interno. In altre parole, l’Io non ha che una maniera per definirsi: individuare prima di tutto, nel corso della sua interazione con la realtà fenomenica, ciò che è non-Io. L’Io prende forma a partire da ciò viene percepito come qualcosa di diverso e distante da noi. La dualità è quindi ciò di cui l’Io necessita per potersi sviluppare.
In mancanza di individuazione, senza la riscoperta della propria centralità come individuo unico ed irripetibile, la persona resta una… Persona. Esattamente così Jung la chiama, Persona, con la P maiuscola, con riferimento alla maschera (appunto persona1) che nel teatro romano veniva indossata sul palco dagli attori quando interpretavano una parte. Ma la Persona non è reale, non è ciò che veramente ognuno di noi è. Noi siamo il nostro Sé, non la Persona. La Persona è piuttosto un costrutto mentale, un compromesso che si crea tra il singolo individuo ed il proprio ambiente. Per poterci meglio inserire nel contesto sociale al quale apparteniamo, la collettività ci richiede di calarci in un ruolo ben definito e socialmente condiviso attraverso cui poter interagire al suo interno. Ma così finiamo con l’indossare noi stessi una maschera, vale a dire con l’interpretare una parte. La paura inconscia di venire esclusi dal gruppo ci porta ad interpretare un ruolo sociale che spesso non sentiamo come totalmente nostro e che soprattutto non ci consente di divenire la personalità che siamo veramente.
Alla lunga, seguitando ad incarnare un ruolo che non ci appartiene e che ci frena nella riscoperta del nostro Sé finiamo inesorabilmente con l’identificarci con il solo Io. L’Io diventa così la sola parte della nostra psiche tramite la quale possiamo prendere coscienza di noi stessi e continuare a rapportarci alla realtà fenomenica a noi esterna. Questo per Jung può avere conseguenze disastrose per la psiche umana, perché il persistere a scapito del Sé della Persona incentrata solo sull’Io può annichilire l’animo umano privando l’individuo di tutta quella ricchezza, poliedricità, ecletticità, versatilità, nonché di tutto quello spettro affettivo, emozionale e cognitivo che sono tutti elementi alla base del suo essere unico ed irripetibile come umano. Ed è così che la Persona si trasforma in uno zombie.
C’è un ulteriore aspetto di estrema importanza da tenere in considerazione in questo processo di omologazione alle norme ed agli stereotipi del contesto sociale di appartenenza che l’individuo subisce quando si rivela incapace di differenziarsene. Come ormai appare chiaro, una persona realmente matura dal punto di vista psichico va considerata colei che è stata in grado di raggiungere un certo grado di individuazione. Grazie a questo sviluppo interiore, la persona in questione, quando si interfaccia con la realtà fenomenica in cui è inserita, non ha bisogno di null’altro che non sia il suo Sé innato per poter avere coscienza di sé nelle abituali interazioni con il mondo circostante. In questo caso, è come se la persona “uscisse” da dentro se stessa, dalla propria interiorità, e come entità cosciente unica, esclusiva, irripetibile e totalmente indipendente fa esperienza di una realtà fenomenica che percepisce inizialmente come estranea a se stessa ed alla propria interiorità. Pur avvertendo all’inizio questa realtà come altro da sé, tuttavia la persona correttamente individuata finisce col sentirsene intimamente connessa e partecipe. Questo succede perché il suo Sé è anche, se non soprattutto, quel principio ordinatore che funge da guida interiore per superare l’illusorietà delle divisioni e riuscire a percepire l’unità nel Tutto. Così scriveva Jung:
«Empiricamente il Sé appare nei sogni, nei miti e nelle favole in una immagine di “personalità di grado superiore”, come re, eroe, profeta, salvatore ecc.; oppure di un simbolo della totalità, come il cerchio, il quadrato, la quadratura del circolo, la croce ecc. Rappresentando una complexio oppositorum, una sintesi degli opposti, esso può apparire anche come diade unificata, quale è per esempio il Tao, fusione della forza yang e della forza yin, come coppia di fratelli oppure sotto l’aspetto dell’eroe e del suo antagonista (drago, fratello nemico, nemico mortale, Faust e Mefistofele ecc.). Ciò vuol dire che sul terreno empirico il Sé appare come un gioco di luce e di ombra, quantunque concettualmente esso venga inteso come un tutto organico e quindi come un’unità nella quale gli opposti trovano la loro sintesi. Poiché un concetto del genere si sottrae a ogni rappresentazione di tipo tertium non datur, esso è anche, per questa stessa ragione, trascendente»2.
Dunque il Sé non solo è il centro della psiche; non solo ne rappresenta la totalità; non solo è il fine ultimo a cui essa deve convergere; non solo è ciò che favorisce questo ottenimento; il Sé è soprattutto quell’istanza archetipica superiore dal carattere trascendente che media tra gli estremi conciliandoli, tra i contrari fondendoli, tra i diversi unendoli. Ma quando non c’è individuazione e l’Io si identifica con la Persona, ossia quando si diventa zombie filosofici, le cose cambiano radicalmente. Resta, appunto, solo l’Io per rapportarsi al mondo esterno. Ma l’Io si forma sulla base della polarità, del contrasto tra io e non-Io. In mancanza di quel principio ordinatore ed unificatore che è il Sé, venendo guidati dal solo Io, l’individuo può identificarsi ed avere coscienza di sé solo mediante la dualità, la contrapposizione, il disaccordo, il conflitto.
Lo zombie – riassumendo – è essenzialmente colui che ha bisogno di tutte queste dicotomie per puntellare la propria individualità e la propria percezione di sé. Può ragionare solo in termini di bianco o nero, sotto o sopra, bello o brutto… Non è in grado di concepire la presenza di soluzioni intermedie, sfaccettature diverse, punti di vista differenti: per lui è sempre vero che tertium non datur. Non può fare a meno di definirsi attraverso i contrasti perché altrimenti diventerebbe un essere invisibile a se stesso, scomparendo come persona e condannandosi all’insignificanza. Ma questo stato di necessità è causa di conseguenze sovente nefaste. Sulla base di tutto quello che ci siamo detti, siamo ora nella condizione di elencare tutta una serie di comportamenti che gli sono propri ma che andrebbero considerati a tutti gli effetti come manifestazioni di vere e proprie patologie mentali.
- Lo zombie, essendogli impossibile una qualsiasi forma di complexio oppositorum, è obbligato ad avere costantemente di fronte a sé la figura di un nemico contro cui contrapporsi. In mancanza di questo, lui stesso non saprebbe chi è e dare un significato alla sua esistenza. Ma che fare se il nemico è assente? Nessun problema: basta inventarsene uno di sana pianta, convincersi che esista effettivamente e che costituisca una minaccia esistenziale per tutta l’umanità che solo lui può fronteggiare.
- Sprovvisto degli strumenti con cui comprendere la realtà circostante in profondità, lo zombie scambia la mappa per il territorio ed i simboli per i loro significati. In altre parole, non vive più nella vita reale ma in una sorta di realtà virtuale. Vive ed agisce come se fosse in un videogioco in cui si immedesima completamente, anima e corpo, nell’avatar dell’eroe, del protagonista, del cavaliere senza macchia e senza paura A seguito di questa errata percezione della realtà, anche nella vita reale si comporta nella stessa maniera con cui si percepisce in quella virtuale: come un essere dalle qualità e virtù superiori per via delle quali è destinato ad imprese memorabili.
- Nella sua visione dicotomica della realtà in cui tassativamente tertium non datur, lo zombie non capisce il punto di vista altrui, ovvero quello di coloro che invece sono ancora consapevoli di vivere una vita reale. Tuttavia, in qualche recondito e profondo anfratto del suo animo, sussiste il dubbio che gli altri non siano solo degli stupidi mentecatti. Ma ciò non può essere tollerato da parte sua, perché diversamente dovrebbe mettere in discussione questa sua Weltanschauung, cui è così saldamente ancorato. Diviene quindi sospettoso verso gli altri, ed in lui prevalgono sentimenti negativi, quali ostilità, invidia e gelosia. Non è disposto a riconoscere legittimità al loro punto di vista; al contrario, accetta acriticamente ogni falsità che possa però rinsaldare questa sua errata percezione.
- Se è vero quanto sostenuto da Platone, ovvero che vi è un Iperuranio che “è quel mondo oltre la volta celeste che è sempre esistito ed in cui vi sono le idee immutabili e perfette, raggiungibile solo dall’intelletto, non tangibile dagli enti terreni e corruttibili”3, lo zombie si dimostra impossibilitato a cogliere l’immutabilità e la perfezione delle idee medesime. Non ci può riuscire perché l’Iperuranio può essere raggiunto solo col tramite del Sé, istanza unificatrice e trascendente. Quindi non apprezza la bellezza, non intuisce la verità, non distingue la menzogna. Si limita a crogiolarsi nella sua realtà virtuale, dove continua a sentirsi come er mejo fico der bigonzo.
A questo punto, tocca invitare il lettore a fare una considerazione. Si mettano insieme i quattro punti di cui sopra. Cosa otteniamo sommando (a) + (b) + (c) + (d)? Facile. Otteniamo il comunista antifascista. Pensateci bene: non è forse così? Non è forse vero che il comunista antifascista presenta ognuno di queste quattro caratteristiche (in realtà, vere e proprie devianze)?
Insomma, il comunista antifascista, per potersi sentire “vivo”, deve vedere fascisti ovunque, anche su Marte! Il fascismo mussoliniano è morto e sepolto da decenni. Certamente, può ancora esserci in giro qualche nostalgico del Ventennio, qualcuno solito a fare il saluto romano o collezionare memorabilia legati alla figura del Duce. Ma si tratta in ogni caso, se non di veri e propri disadatti, di quattro gatti, o comunque di persone che non sono certo nelle condizioni di sovvertire l’ordine democratico costituito. Quindi il fascismo, per lo meno per come lo si è avuto negli anni ‘20 e ‘30 del secolo scorso, è solo un ricordo del passato. Invece il comunista lo vede ancora dappertutto. In realtà, chiunque non la pensi come lui, diviene automaticamente fascista, per il solo fatto di non pensarla come lui!
E questo succede proprio perché il comunista vive in una realtà immaginaria, in cui lui è il top, è la più piena e genuina manifestazione della ragione ragione umana e della sua alta moralità, è colui che è intrinsecamente superiore in virtù della resistenza partigiana, di bella ciao e della costituzione più bella del mondo. Per queste ragioni, ognuno gli deve obbedienza e sottomissione. “Ma come? Non canti bella ciao? Non ti dichiari antifascista? Non festeggi il primo maggio? Critichi la costituzione più bella del mondo? Fassista, fassista, dagli al fassista!”.
Il comunista si illude di potersi porre in testa all’umanità in un ipotetico cammino di crescita sociale destinato a portare la stessa a sperimentare il migliore dei mondi possibile. Ma questa sua ossessione di tipo messianico per le magnifiche sorti e progressive non è che uno degli innumerevoli errori in cui cade. Ignora ciò che Jung stesso diceva: “Il bene è un dono e un’acquisizione individuale; in quanto suggestione di massa è una mera ubriacatura che non ha mai avuto valore di virtù. Il bene può essere raggiunto solo dal singolo come sua prestazione individuale. Non c’è massa che possa farlo per lui”4. Questa sua suggestione di massa, ormai trasformatasi in fissazione, lo induce a identificarsi come vero e autentico salvatore del mondo, a tal punto che gli diventa inammissibile che qualcuno possa avere punti di vista differenti dai suoi. Chi osa farlo, è solo un fascista, quindi un non-uomo, al quale non si deve riconoscere alcun diritto, se non quello di essere appeso a testa in giù. Né il comunista si rende conto di essere divenuto egli stesso quel fascista che odia e che vuole costantemente combattere. In quanto er mejo fico der bigonzo, la sua superiorità non può essere messa in discussione.
Aveva proprio ragione lo scrittore Ennio Flaiano5:
Il comunista è invidioso e rancoroso. Non riconosce il merito altrui. Se qualcuno ha successo, a meno che non sia uno come lui, è solo perché è un furfante, un poco di buono, uno che non rispetta le regole, un evasore e approfittatore. Al contrario, quelli come lui sono buoni a prescindere, e se commettono ingiustizie, angherie o veri e propri crimini, beh, non è colpa loro, è colpa della sfortuna e del destino cinico e baro, in fin dei conti sono errori di poco conto, anche i compagni sbagliano, anzi, hanno fatto bene perché restano comunque giustificati dalla loro superiore moralità! Quindi una come Ilaria Salis diventa una novella Giovanna d’Arco, vendicatrice degli oppressi, eroina di una giustizia superiore, perché avrà pure commesso un crimine alquanto efferato in un paese straniero ma – si sa – uccidere un fascista non è un reato!
Il comunista non sa agire in maniera autonoma. Ha sempre bisogno di qualcuno che gli impartisca degli ordini e gli spieghi che cosa deve fare. Privo di inventiva e di ingegnosità, non è che un piccolo soldatino sempre ligio al dovere. È però questo un dovere che non distingue come intimamente suo od un qualcosa di cui sente partecipe. Non è mosso da un anelito superiore quando lo compie. Cionondimeno, non può esimersi dal comportarsi nel modo che tutti si aspettano da lui. Ma poi, per carità: perché pensare ed agire con la propria testa? Non sia mai. Si riceverebbe solo riprovazione da parte dei propri consimili: il conformismo è preferibile al ludibrio ed all’esclusione.
Abituato alla passività, il comunista non sa pensare ed agire con la propria testa, ma reagisce a comando appena ode alcune parole d’ordine, fortemente simboliche, quali libertà, diritti e progresso. Questo succede perché – come abbiamo visto – le parole sono simboli a cui bisogna dare un significato. Ma il egli ne è incapace: quindi pensa ed agisce sulla base del simbolo, e non del significato, esattamente come fanno i cani del celebre esperimento di Pavlov6, per cui il suono di una campanella diventa il simbolo da associare alla pappa.
Ed il comunista non sa neppure riconoscere il bello. Chiama arte, cultura, talento ed intelligenza solo ciò che può piacere a lui. Ma forse questa da parte sua non è neanche una forma di apprezzamento; è piuttosto omologazione e rassegnazione alla mediocrità alla quale è confinato. Sentendosi sopraffatto dalla vera bellezza di cui non sa cogliere la più intima natura, ha bisogno di rifugiarsi nella sua comfort zone, là dove può continuare ad illudersi del fatto che lui è ancora il migliore. Ecco perché vilipende chi ha una visione spirituale della vita. È questo un qualcosa che oltrepassa grandemente le sue limitate possibilità di comprensione. Quindi si vede costretto a trincerarsi dietro il suo proverbiale materialismo storico, grazie a cui continua a sperimentare quel sentimento di divisione che tanto lo rassicura, mancando degli strumenti con cui trascendere la realtà e giungere così ad un’armoniosa sintesi tra gli opposti. No, l’armonia non può proprio far parte del suo essere.
Infatti il comunismo si fonda su quel sentimento che nessun essere umano dovrebbe mai provare: l’odio. Il comunista esiste perché odia. Parafrasando Cartesio, dovrebbe asserire: odio, ergo sum. Odiare diventa un’azione inevitabile per chi non sa definirsi se non contrapponendosi al prossimo. È triste il destino di colui che per prendere coscienza di se stesso non ha altro modo che quello di odiare. Più si odia, più ci si definisce; più ci si definisce, più si odia. E così via, fino a sfociare in una spirale degenerativa, causa ultima di ogni totalitarismo anti-umano.
Ordunque, questa filippica non vuole certo essere una presa di posizione a favore di altre ideologie. Nient’affatto. Solo un comunista potrebbe pensarlo. Ovviamente. La nostra vuole piuttosto essere una requisitoria nei confronti di tutte quelle ideologie che causano divisioni ed impediscono quella sintesi tra gli opposti che sola può dare spazio alla crescita coscienziale nella persona. Ad esempio, che cosa c’è ufficialmente in Ucraina? Il comunismo? No, il nazismo, o quanto meno una sua farsesca ancorché tragica imitazione. Occorreva però mettere gli ucraini contro i russi ed alla fine, tra le varie ideologie totalitarie tra cui poter scegliere, si è optato per il nazismo, ritenuto più funzionale allo scopo.
Ma questo è il comunismo: non un’ideologia politica, come lo si è da sempre reputato, ma più propriamente un disturbo della psiche, una patologia mentale intesa in senso junghiano, una vera e propria malattia dello spirito, che giustifica lo zombie sollevandolo dall’incombenza di doversi fare un esame di coscienza. “Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza”, declamava il Sommo Poeta. Ecco, il comunismo è proprio l’opposto di quanto e Dante invitava a fare: è esattamente ciò che avvalla l’operato dello zombie, ne legittima l’apatia, ne manleva le colpe, inducendolo a tirare fuori il peggio da se stesso. Ed in fondo a questo peggio c’è solo una cosa: il genocidio, cui il comunismo tende per sua stessa natura.
In quanto patologia della mente e non ideologia, il comunismo necessita comunque di un’ideologia che lo supporti ed in cui possa trovare terreno fertile per prosperare. E quest’ideologia si chiama democrazia, parola ormai vuota e priva di significato reale ma che comunque, in quanto simbolo potentissimo, conserva intatta la capacità di indirizzare il pensiero delle masse.
«La democrazia dovrà cadere, perché cercherà di adattarsi a tutti. I poveri vorranno la ricchezza dei ricchi, e la democrazia gliela darà. I giovani vorranno essere rispettati come gli anziani, e la democrazia glielo darà. Le donne vorranno essere come gli uomini, e la democrazia glielo darà. Gli stranieri vorranno i diritti dei nativi, e la democrazia glieli darà. Ladri e truffatori vorranno importanti funzioni governative, e la democrazia gliele darà. E in quel momento, quando i ladri e i truffatori finalmente prenderanno il potere democraticamente perché i criminali e i malfattori vogliono il potere, ci sarà una dittatura peggiore che ai tempi di qualsiasi monarchia o oligarchia».
Questa era l’opinione che della democrazia aveva il grande filosofo greco Socrate. Egli paragonò lo stato ad una nave presa in consegna da un equipaggio senza alcuna conoscenza dell’arte della navigazione, quali sono i votanti non istruiti che si presentano alle elezioni. Inesorabilmente ognuno dei marinai vorrà farsi comandante, a prescindere dalla propria bravura e dall’effettiva capacità di governare una nave. Così l’equipaggio verrà facilmente influenzato da chi è più abile in retorica e persuasione, non dalla persona più esperta nella navigazione. Allora, perché lasciare che chiunque scelga il leader di uno stato?
In realtà Socrate rifuggiva da ogni forma di totalitarismo. Più che ad una classe privilegiata di elettori, gli unici a cui eventualmente riconoscere il diritto di votare, egli pensava che tutti dovessero sviluppare una capacità di pensiero logico-razionale e di crescita coscienziale tanto da diventare degni di partecipare alle elezioni. In altre parole, anche Socrate, a modo suo, auspicava un risveglio del Sé. Fu per questo motivo che andò in giro per Atene cercando di realizzare questa sua ambizione: sfidare le persone nel dialogo in modo da stimolarne la logica e la riscoperta della propria interiorità. Ma – come abbiamo avuto di constatare in queste pagine – dobbiamo nostro malgrado accettare l’idea che non tutti siano capaci di ciò: sono zombie.
Tutto questo non è senza conseguenze: la democrazia è infatti destinata al fallimento. Ne era convinto pure Platone, il più celebre dei discepoli di Socrate. Secondo lui, la democrazia è appena al di sopra della tirannia, nella quale inevitabilmente scivolerà.
Edward Bernays7 – nipote di quel Sigmund Freud di cui Jung era stato allievo nei suoi anni giovanili, salvo poi distaccarsene non senza pochi strascichi polemici – è ancora oggi reputato uno dei massimi teorici nell’“arte” della manipolazione delle coscienze delle masse. Nella seguente maniera sintetizzò il suo pensiero sulla democrazia:
«La manipolazione consapevole e intelligente delle abitudini e delle opinioni organizzate delle masse è un elemento importante nella società democratica. Coloro che manipolano questo meccanismo invisibile della società costituiscono un governo invisibile che è il vero potere dominatore del nostro Paese. Siamo governati, le nostre menti sono modellate, i nostri gusti formati, le nostre idee suggerite, in gran parte da uomini di cui non abbiamo mai sentito parlare. Questo è il risultato logico del modo in cui è organizzata la nostra società democratica. Un gran numero di esseri umani devono cooperare in questo modo se vogliono vivere insieme come una società che funzioni senza intoppi. In quasi ogni atto della nostra vita quotidiana, sia nella sfera della politica che degli affari, nella nostra condotta sociale o nel nostro pensiero etico, siamo dominati da un numero relativamente piccolo di persone che comprendono i processi mentali ed i modelli sociali delle masse. Sono loro che tirano i fili che controllano la mente pubblica».
- 1 https://it.wikipedia.org/wiki/Persona_(filosofia)
- 2 C. G. Jung, Tipi psicologici, Boringhieri, Torino, 1968, pagg. 467-468
- 3 https://it.wikipedia.org/wiki/Iperuranio
- 4 C.G.Jung – Commenti sulla storia contemporanea – 16 novembre 1946
- 5 https://it.wikipedia.org/wiki/Ennio_Flaiano
- 6 https://it.wikipedia.org/wiki/Riflesso_condizionato
- 7 https://it.wikipedia.org/wiki/Edward_Bernays